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Creative minds: Pininfarina (Nautical)

16 Feb

Ci sono nomi che sono diventati simbolo di quello stile per cui l’Italia è famosa nel mondo, sinonimo di bellezza, eleganza e savoir faire. E Pininfarina è certamente uno di questi. La sua storia, lunga oltre 90 anni, ha visto uno sviluppo da impresa artigiana a gruppo internazionale: nata nel 1930, ha creato le carrozzerie di alcune delle automobili più belle del mondo, che hanno fatto la storia del design. Oggi ha oltre 500 dipendenti nelle sue sedi in Italia, Germania, Cina e Stati Uniti, ed è una casa del design a 360 gradi che opera in ogni settore, dall’automotive, a ogni tipo di mezzo di trasporto, dall’architettura, all’industrial design, in una miriade di progetti eterogenei accomunati dai tre capisaldi del suo design: eleganza, purezza e innovazione.  

Se Pininfarina è un brand che non ha bisogno di presentazioni, un approfondimento merita la sua divisione nautica, che getta le sue radici negli anni 80 del secolo scorso ed è oggi ricca di progetti in collaborazione con i maggiori cantieri internazionali, con yacht bespoke come Fincantieri Ottantacinque, Rossinavi Aurea, Super Sport 50 e 65, Tango Wallycento, e restyling di intere linee come avvenuto con Princess. Rappresentando un settore strategico, la divisione dispone di un team dedicato di otto designer, con a capo Daniele Mazzon, Chief Transportation and Yacht Designer. “Il team viene ampliato a seconda del progetto, attingendo al team architettura se dobbiamo disegnare interni, o automotive se si tratta di una barca sportiva. La direzione stilistica è nel nostro headquarter di Torino, ma lavora in interconnessione con gli altri designer del gruppo, in tutte le sedi: Torino, Miami, Shanghai. Ma non solo: la cross-fertilization avviene anche con i gruppi di lavoro che si occupano di verniciatura, virtual reality, rendering, augmented reality, modellazione 3D”.

Nel processo creativo “a  volte si parte da disegni digitali, altre volte da disegni a mano libera. Ma questo poco importa: sono solo mezzi che ci servono per stimolare i cantieri a realizzare qualcosa che non sia convenzionale”. Rompe decisamente gli schemi Oceanco Kairos, il progetto presentato all’ultimo Monaco Yacht Show, un 90 metri rivolto a clienti che vivono la barca in maniera statica, come una villa in mezzo al mare. Strabiliante quella che viene chiamata la piazza al centro della barca, aperta sul mare e connessa al cielo attraverso un foro passante con vetrate calpestabili, che lasciano entrare la luce grazie al design delle sovrastrutture, non puro esercizio di stile, ma funzionale a questa connessione tra cielo, mare e ambiente. “Oceanco voleva un nuovo Alfa Nero, un progetto disruptive, per armatori che arrivano in barca con l’elicottero o con il tender, entrando direttamente nella piazza, la parte più importante dello yacht, su cui affacciano tutte le cabine”. Continua Mazzon. “La collaborazione con gli architetti navali di Lateral Naval Architects è stata fondamentale: la sala macchine è stata spostata sotto il livello dell’acqua per permettere l’apertura laterale della piazza”.

Di tutt’altro stile, ipersportivo, il progetto Persico F70, realizzato in collaborazione con Carkeek design e Persico Marine, il cantiere che realizza le barche “volanti” della moderna America’s Cup. Il team nautico Pininfarina ha realizzato interni ed esterni di questo 70 piedi full foil: “abbiamo sfruttato la galleria del vento Pininfarina in un connubio di studi tra idrodinamica e aerodinamica, per arrivare a uno scafo che ha questa forma. È un’imbarcazione molto esclusiva, non solo per il costo. È come un’auto da corsa che si utilizza in pista. Rivolta a una ristretta schiera di clienti, che però esiste”, conclude Mazzon. Sportività che rimane nel dna Pininfarina anche nell’ultimissimo progetto E6, nella E Line, top di gamma delle barche sportive Elan, presentato al Salone nautico di Düsseldorf 2022.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato su THE ONE – Yacht and Design Carbon issue del 2021

Vacheron Constantin: Vermeer tascabile

16 Feb

Per i grandi e facoltosi collezionisti il limite esiste solo nella loro fantasia. Possono avere tutto: serie limitate, pezzi unici. Ma possedere qualcosa che gli altri non hanno non è ancora abbastanza. La vera emozione allora consiste nel farsi realizzare il proprio orologio esattamente come lo si è immaginato, da qualcuno in grado di trasformare la loro visione in realtà. Chiamarlo orologio risulta dunque riduttivo per opere d’arte di tale portata e costo (in milioni di euro), che sono oggi il corrispettivo di un quadro su commissione ai grandi maestri del Rinascimento. Che eleva su un piano ancora superiore determinati collezionisti.  

Come quello che ha commissionato a Vacheron Constantin Les Cabinotiers sonnerie Westminster – Omaggio a Johannes Vermeer, un orologio da tasca che include alcune delle complicazioni più raffinate dell’orologeria: Grande e Petite Sonnerie, la ripetizione minuti e il Tourbillon. Impreziosite dalla riproduzione a smalto di un dipinto realizzato dalle sapienti mani di Anita Porchet, la sopraffina smaltatrice elvetica, garanzia di eccellenza.

Per il brand è un impegno in termini di tempo e denaro notevole e in pochissimi hanno le competenze per farlo. Ma Vacheron Constantin ha un dipartimento apposito: Les Cabinotiers, il team che ricalca le orme dei maestri orologiai ginevrini del Settecento a cui i dignitari delle corti europee commissionavano i loro pezzi di pregio e che avevano i cabinet, il nome dei loro studi, ai piani alti dei palazzi di Ginevra, per avere maggiore luce.

Ci sono voluti otto anni per mettere a punto questo capolavoro in ogni suo aspetto tecnico e artistico. I maestri orologiai hanno creato un nuovo movimento a carica manuale, che sarà usato solo per questo esemplare: il calibro 3671, con regolatore a tourbillon (visibile sul lato fondello), ripetizione minuti e Grande e Petite Sonnerie a carillon Westminster, una delle suonerie più complicate da realizzare, che prende il nome dalla campana del Big Ben di Londra, di cui riproduce la melodia prodotta da 5 martelletti che battono su altrettanti gong. Un doppio bariletto ne aumenta l’autonomia, di circa 80 ore per le indicazioni orarie e circa 16 ore in modalità Grande Sonnerie.

Il cuore estetico di questo pezzo unico è il coperchio del fondello, sul quale Anita Porchet ha dipinto una miniatura de La ragazza con l’orecchino di perla del pittore olandese Johannes Vermeer (1665), secondo la tecnica antica chiamata “smalti di Ginevra”, che consiste nell’applicare i colori su uno strato di smalto bianco, che rappresenta la sua tela. Trattandosi di una miniatura di 98 mm di diametro, l’artista ha usato il microscopio binoculare per realizzarne tutti i dettagli e i chiaroscuri e al termine di ogni fase ha stabilizzato il dipinto con la cottura in forno, senza possibilità di ritocchi. Solo per il turbante, sono state necessarie due settimane di lavorazione, mentre per lo sfondo nero, colore che tende a ossidarsi, sette tonalità di nero. In totale, Porchet ha impiegato due anni di lavorazione per portarlo a termine.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera – Dorso Orologi di dicembre 2021

Tudor e gli All Blacks: nati per osare

16 Feb

Proviamo a immedesimarci: la palla si può passare solo indietro, quindi l’unico modo per avanzare e andare a fare meta nel rugby è brandire la palla in mano e correre, correre, cercando di non farsi placcare. Ottanta minuti di gioco effettivi di pura adrenalina, in cui l’infortunio è sempre dietro l’angolo. Occorrono passione, muscoli, tattica. Ma soprattutto coraggio. È nato per osare Beauden Barrett, vero talento del team più forte di tutti i tempi, la nazionale neozelandese degli All Blacks, che ha giocato contro l’Italia il 6 novembre scorso. “Nelle partite e in allenamento spesso è più facile fare la cosa sicura ed essere prudenti, ma se vuoi migliorare e metterti alla prova devi spingerti oltre i tuoi limiti”.

Il trentenne, miglior giocatore al mondo nel 2016 e 2017, insieme a tutta la nazionale è ambasciatore di Tudor, con cui condivide lo spirito autentico legato alle proprie radici e la robustezza. Gli orologi del marchio fondato da Hans Wildorf sono infatti progettati per resistere nelle situazioni più estreme e sono stati al polso degli sportivi più avventurosi. “Anche io mi sto allenando in tutti i tipi di condizioni, costretto ad evolvermi, adattarmi e a giocare sotto pressione”, aggiunge. Piena espressione del motto Tudor “Born to dare”, che gli All Blacks incarnano alla perfezione.

Dall’anno della sua fondazione, infatti, il 1884, la nazionale kiwi ha vinto più di tre partite su quattro, un’enormità. E il suo regista, Barrett, è una leggenda, ma anche parte di una squadra che è più leggendaria di lui. Infatti mantiene un understatement tipico di chi si sente parte di un tutto che ha un valore superiore. Rappresentato dalla divisa nera con la felce argentata: “sono grato di aver avuto l’opportunità di indossare questa maglia più di 100 volte. Non sappiamo mai quando sarà l’ultima, nel frattempo si tratta di onorarla e di valorizzarne l’eredità ogni volta che possiamo”. Ma come si diventa capofila del team più leggendario al mondo? “Richiede tempo. Crescita personale e sviluppo negli anni. È importante imparare dai leader del passato e portare il tuo stile di leadership. Essere autentici è tutto: le persone ti seguiranno se sei genuino e dai l’esempio”.

Così come il marchio Tudor è innovativo, ma legato alla tradizione, gli All Blacks sono una nazionale che si rinnova di continuo, ma custode di un passato glorioso, inscindibilmente legato ai Maori, la cui lingua e identità vengono mantenuti vivi con la Haka, la celebre danza con cui si apre ogni partita. “Fa parte di chi siamo e di chi rappresentiamo. Si tratta di connetterci come una squadra prima della battaglia, per sentire la wairua (il proprio spirito senziente, ndr) e guardare i nostri avversari negli occhi”, conclude Barrett. Che incarna l’essenza del vero campione.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera – Dorso Orologi di dicembre 2021

Richard Mille: l’ultima sfida dei samurai

16 Feb

Quando alta orologeria e arte si incontrano nascono modelli destinati a fare scalpore. È questo il caso dell’ultimo RM 47 Tourbillon, uno straordinario esempio di abilità nell’incisione e nella smaltatura che rendono l’armatura del samurai che veste il movimento una scultura tridimensionale, la cui bellezza cattura l’attenzione anche di un occhio non esperto. È l’ultima creazione di Richard Mille, marchio conosciuto principalmente per la tecnologia e il carattere audace dei suoi modelli, ma che già da qualche anno rende omaggio alla tradizione orologiera utilizzando le tecniche del passato, unitamente a quelle del presente, per creare opere uniche. Nel 2014 per esempio era nato l’RM 26-02 Tourbillon Evil Eye, con un occhio diabolico sul quadrante circondato da fiamme smaltate, mentre nel 2019 l’RM 57-03 Tourbillon Sapphire Dragon, con un superbo dragone realizzato in un mix di zaffiro e oro.

Questo è invece l’anno dell’RM 47 Tourbillon, un tributo all’antica arte giapponese e alla cultura dei samurai, realizzato in 75 esemplari, la cui ideazione e creazione ha richiesto oltre tre anni di meticoloso lavoro manuale. L’armatura del samurai è incisa in oro giallo, materiale caro alla tradizione nipponica e poi smaltata in alcune sue parti per darle la tridimensionalità necessaria a esaltarne l’espressività. Un lavoro svolto da una coppia di artigiani che hanno il loro atelier proprio alle pendici del Giura, in Svizzera: il maestro incisore Pierre-Alain Lozeron e la smaltatrice Valérie Lozeron. “Per questo progetto, siamo stati contattati nel 2019”, racconta l’incisore. “Si trattava di creare un’armatura da samurai completamente integrata nel movimento con dispositivo tourbillon.

L’idea iniziale è sembrata subito una missione impossibile. I primi campioni li abbiamo realizzati con mastice da modellazione, seguiti da prototipi in ottone. E dopo molti tentativi siamo arrivati al progetto definitivo”. Che comprende molti dettagli appartenenti al mondo dei samurai: l’elmo protettivo, il kabuto, con la sua smorfia per spaventare gli avversari, le due spade con le lame rivolte verso l’alto, le due piume di falco incrociate a ore 6, sopra al tourbillon, che rappresentano lo stemma della famiglia Asano, emblema dello spirito bushido, il codice di condotta dei guerrieri-samurai diventato famoso in tutto il mondo attraverso la letteratura.

“Ho avuto bisogno di 20 scalpelli diversi per sviluppare le strutture e le trame dell’armatura. In totale, sono state necessarie 16 ore di incisione per creare gli undici elementi che danno vita a questa decorazione”, aggiunge Pierre-Alain. “Ma è stato quando è stato colorato con smalto traslucido che lo straordinario lavoro di incisione ha davvero preso vita”, sottolinea la smaltatrice. Che con vari tentativi ha dovuto scegliere quali parti colorare e quali lasciare in oro. “Aggiungendo al tempo di incisione le nove ore per pezzo necessarie per la verniciatura, sono state necessarie più di 24 ore in totale per una singola armatura. Un compito monumentale”. Armatura che riveste fronte e retro il movimento RM 47, un calibro di manifattura a carica manuale con un’autonomia fino a 72 ore, con platina e ponti scheletrati rifiniti a mano realizzati in titanio grado 5 micropallinato rivestito in Pvd grigio.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera – Dorso Orologi di maggio 2022

Montblanc punta all’Everest. Senza ossigeno

16 Feb

C’è un detto che afferma: “Se un uomo dice di non aver paura della morte, o sta mentendo, o è un Gurkha”. Ovvero quei soldati di nazionalità nepalese arruolati nell’Esercito britannico che hanno una grande reputazione di forza e coraggio. Qualità che non mancano certo a Nirmal Purja, l’alpinista nepalese (naturalizzato britannico) di 38 anni protagonista del documentario 14 vette: scalate ai limiti del possibile (visibile su Netflix) e del libro Oltre il possibile (Ed. Solferino), che è diventato gurkha a 18 anni ed è poi stato il primo a entrare nel reparto speciale Special Boat Service, una delle unità militari d’élite del Regno Unito. Prima di dedicare la vita alla sua vera passione: l’alpinismo. Nel quale mostra le stesse doti di audacia e forza interiore che non si affievoliscono di fronte a nulla. Neanche a un’impresa da tutti considerata impossibile: scalare le 14 vette più alte del mondo in meno di sette mesi, quando prima di lui il record era di poco meno di 8 anni. Montagne con una cosa in comune: superano tutte gli 8mila metri, sono dunque nella cosiddetta “zona della morte” dove, a causa della scarsità di ossigeno e delle temperature glaciali, la vita umana non può resistere oltre un ridotto limite di tempo. Per molti, più che un progetto, una spacconata destinata a fallire. E invece Nimsdai (come viene anche chiamato) non solo ci è riuscito, ma ci ha messo sei mesi e sei giorni.

Dietro a un’apparenza da orgoglioso “self made man” si cela un’anima profonda: Nirmal ha compiuto questa impresa per “rappresentare il Nepal e il contributo che i nepalesi hanno dato all’alpinismo mondiale”, scrive sul suo profilo Instagram. Un orgoglio per gli sherpa, uomini “sempre in prima linea per rendere l’impossibile, possibile. Ma anche per ispirare ognuno a sognare in grande, ad avere grandi obiettivi nella vita e impegnarsi per raggiungerli, senza preoccuparsi di quale sia il background”. Le sue origini infatti sono umili e l’infanzia dura. Ma mentre è arruolato, scopre di avere delle doti fisiche speciali, una capacità di acclimatarsi ad elevate altitudini superiore a tanti altri alpinisti, dovuta a una migliore distribuzione di ossigeno alle cellule del corpo, cervello incluso, che lo rende più performante e lucido nelle decisioni proprio in quella zona della morte dove molti iniziano ad avere allucinazioni e problemi fisici.

Le 14 vette che lo hanno reso una star sono state scalate con l’aiuto di ossigeno, ma una delle sue prossime avventure, programmata per la fine di maggio, sarà quella di ascendere l’Everest senza ossigeno supplementare, come nell’alpinismo classico. Per questo progetto, Montblanc – di cui Nirmal è divenuto ambasciatore – ha realizzato il 1858 Geosphere Chronograph 0 Oxygen, crono con funzione di ora universale dal nuovissimo movimento MB 29.27. Ma non è la sola novità, perché dall’interno dell’orologio è stato tolto l’ossigeno per evitare l’appannamento dovuto ai drastici sbalzi di temperatura e prevenire l’ossidazione. Come? Il movimento viene incassato all’interno di una sorta di teca concettualmente simile nella forma a una sabbiatrice da banco, una struttura in cui l’operatore agisce infilando le mani in due aperture con guanti integrati, osservando ciò che fa attraverso una lastra di cristallo superiore. L’ossigeno viene sostituito con l’azoto, un gas non inquinante dal momento che l’aria che respiriamo ne è composta per il 78%. Il movimento dello 0 Oxygen adotta poi lubrificanti speciali adatti a mantenere le proprie caratteristiche anche a temperature estreme di -50° C. Il modello monta inoltre guarnizioni particolari non solo tra la cassa, il fondello e il cristallo, ma nella corona e nei pulsanti cronografici. Per non far uscire l’azoto (o entrare l’ossigeno) una volta estratta o azionati.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera – Dorso Orologi di maggio 2022

Cos’è e come si svolgono le posizioni yoga del Saluto al Sole

29 Gen

Che cos’è

Il Saluto al Sole è la sequenza di posizioni yoga in assoluto più famosa. Se si pensa allo Yoga di solito ci si immagina una persona seduta in una posizione a gambe incrociate che intona l’”Om”, tendenzialmente ferma, intenta a respirare ricercando il rilassamento di corpo e mente. Ma se dobbiamo pensare a una serie di movimenti, a cui lo yoga più moderno ci ha abituati, allora il Saluto a Sole è il re delle sequenze.

Significato e origine

In sanscrito si chiama Surya Namaskar: surya è il sole e namaskar è il saluto ossequioso. Il sole è sempre stato venerato nelle culture più antiche di tutto il mondo, compresa quella indiana, quindi verrebbe spontaneo pensare agli antichi praticanti di yoga intenti a compiere le posizioni che oggi conosciamo. In realtà nei testi antichi come i Veda (di datazione ancora dibattuta, ma indicativamente risalenti al 2000/1500 a.C., nei libri più antichi) si parla di un saluto del sole, che però è una formula verbale, eseguita attraverso dei versi, ma non v’è traccia di posizioni, che sono quasi certamente di origine molto più recente. Né se ne parla in altri testi classici dello Yoga, come Yoga Sutra di Patanjali o il più recente Hatha Yoga Pradipika, di Svatmarama.

Nell’interessante libro The Yoga body di Mark Singleton si afferma che il Saluto al Sole fisico sarebbe nato molto più tardi, addirittura nel XX secolo, dal Raja Bhavanarao Pant Pratinidhim (1868-1951), Raja di Aundh, che aveva studiato la cultura fisica non solo indiana, ma anche occidentale, e infine codificato una sua personale sequenza ginnica di allungamento e rafforzamento dei muscoli e delle articolazioni, con finalità di mantenersi in salute, che sarebbe proprio il Saluto al Sole. Fu da questo Raja che, intorno agli anni Trenta, prese probabilmente ispirazione Krishnamacharya, maestro dei più famosi maestri di Yoga del Novecento, da S.K. Pattabhi Jois, padre dell’Ashtanga Yoga, a B.K.S. Iyengar. Con il suo gruppo di specialissimi allievi, nella città di Mysore, diffuse e fece diventare oggi diremmo virale la sequenza del Saluto al Sole, nelle sue infinite varianti.PUBBLICITÀ

Tradizione dell’Hatha Yoga

Esistono molte varianti di Saluto al Sole, ma quella di cui parleremo qui è considerata la variante classica, codificata da Swami Sivananda (1887 – 1963), composta da 12 posizioni, una per ogni ora dell’orologio, molto simile a quella del Raja di Aundh, che ne aveva 10. Le posizioni alternano inarcamenti della schiena e flessioni in avanti, che vanno coordinate ad inspirazione ed espirazione, in una sequenza ben precisa.

Il Saluto al sole fa parte della pratica di Hatha Yoga, il più diffuso yoga che si trova nelle scuole oggi, con piccole varianti rispetto a quello classico, a seconda degli insegnanti. Ma ne esistono di più intense sul piano fisico, come il Surya namaskar A e B dell’Ashtanga Yoga, il saluto al sole del Jivamukti Yoga, oppure le numerose varianti praticate nel Vinyasa. Anche l’Iyengar yoga ha i suoi saluti al sole.

Come si esegue

La sequenza classica del Saluto al Sole si compone di 12 posizioni e può essere ripetuta per molte volte, compatibilmente con il proprio grado di allenamento. La cosa più importante è però coordinare bene il respiro e non eseguire le posizioni in apnea o sbagliando.

Anche se è una sequenza molto conosciuta, non è però così banale come si può pensare. È quindi sempre bene impararla sotto la guida di un insegnante esperto, perché alcuni movimenti potrebbero nuocere alla colonna vertebrale, se non correttamente eseguiti.

  1. Pranamasana: la prima posizione è in piedi, a gambe unite, con le mani a preghiera davanti al petto, in namasté.
  2. Hasta Uttanasana: si sollevano ora le braccia tese in alto sopra la testa, inarcando leggermente la schiena (non troppo, se hai dolori lombari). Questa posizione allunga la parte anteriore del corpo, i pettorali, gli addominali, i flessori dell’anca. E innalza il livello dell’energia nel corpo. Inspira.
  3. Padahastasana: piegati ora in avanti con le gambe tese, con le mani a terra, se ci arrivi, se no piegando leggermente le ginocchia, cercando di portare il mento verso le gambe. Questa flessione in avanti del busto va a massaggiare gli organi addominali e allunga la catena muscolare posteriore. Espira.
  4. Ashwa Sanchalanasana: la posizione equestre. Dalla posizione precedente, porta indietro la gamba destra in un affondo, piega il ginocchio e appoggialo a terra. Contemporaneamente il busto, prima piegato in avanti, si allunga ora in direzione opposta, estendendosi verso l’alto e inarcandosi leggermente, ricercando spazio nella zona toracica per accogliere l’inspirazione. Ora maggiormente si allungano i muscoli della catena muscolare anteriore. È importante in questa fase mantenere il basso addome attivo e risucchiato un po’ in dentro, per proteggere la zona lombare da possibili schiacciamenti dolorosi. Inspira.
  5. Dandasana: questo passaggio si fa trattenendo il respiro. Dalla posizione equestre, porta in dietro la gamba destra e vai nella posizione del bastone, come si traduce letteralmente danda, nota anche come plank nel mondo fitness. In appoggio su mani e piedi, il corpo assume una forma a linea retta. Trattieni il respiro.
  6. Ashtanga namaskara: il saluto ossequioso (namaskara) su otto (ashtau) appoggi (anga). Dal bastone precedente, piega le ginocchia e le braccia contemporaneamente, andando ad appoggiare a terra questi otto appoggi: i due piedi, le due ginocchia, le due mani, il petto e il mento. La pancia è sollevata da terra. Espira.
  7. Bhujangasana: la posizione del cobra. Dalla posizione sugli otto appoggi scivola a terra, prono. Le mani sono all’altezza del petto, gira il dorso dei piedi a terra e, inspirando, solleva le spalle e il petto da terra, con l’aiuto delle mani, ma mantenendo i gomiti piegati, a meno che tu non sia un praticante molto avanzato. Attiva bene i muscoli della schiena e mantieni il basso addome in dentro per salvaguardare la colonna vertebrale lombare. Inspira.
  8. Parvatasana (o Adho Mukha svanasana): il cane a faccia in giù. Dal cobra, torna a pancia a terra, gira i piedi con le punte appoggiate a terra e, spingendo sulle mani, porta in alto il bacino assumendo una posizione a montagna, il cui vertice è il bacino. Espira.
  9. Ashwa Sanchalanasana: a questo punto le posizioni si ripetono a ritroso. Si torna alla posizione equestre, la numero 4 di questo elenco, però portando avanti la gamba destra. Inspira.
  10. Padahastasana: riporta in avanti la gamba sinistra e vai nella posizione numero 2. Espira.
  11. Hasta Uttanasana: torna in piedi con la schiena dritta o leggermente inarcata e con le braccia in alto. Posizione numero 2. Inspira.
  12. Pranamasana: si termina la sequenza tornando con la schiena dritta e le mani a preghiera davanti al petto, come la posizione 1. Espira.

Quante volte ripeterlo

Un ciclo di Saluto al Sole consiste nell’eseguire due volte la sequenza da 1 a 12, alternando la gamba che va dietro e torna avanti nelle posizioni 4 e 9, prima la destra e poi la sinistra. Un ciclo si compone dunque di 24 posizioni. Swami Sivananda consigliava di iniziare con 4 cicli, controllando bene la corretta coordinazione dei movimenti con il respiro. Poi si può progressivamente aumentare fino a 12 cicli.

Essendo brevi hanno il vantaggio di poter essere svolti ogni giorno, così come il corpo richiede, perché si possono facilmente adattare alle proprie routine: quando si hanno 10 minuti se ne eseguono 5/6 cicli e, in base al tempo che si ha a disposizione, si aumentano le ripetizioni.

Esistono oggi alcune pratiche di 108 saluti al sole, che richiedono molta concentrazione e allenamento e sono assolutamente sconsigliate ai principianti.

Quando va fatto

Come suggerisce il suo nome, va praticato idealmente al mattino, rivolti verso est, dove sorge il sole, ed è una pratica energizzante che risveglia un po’ tutto il corpo, tonificando ed elasticizzando muscoli ed articolazioni. Può essere considerata una pratica a sé stante, o anche il riscaldamento per le posizioni yoga successive. Innalzando il livello energetico del corpo, non è indicato la sera, perché potrebbe ostacolare il riposo notturno.

Benefici

La notorietà di questa sequenza è dovuta al fatto che contiene movimenti che alternano inarcamenti e flessioni della colonna vertebrale, un ottimo modo per risvegliare l’energia del corpo al mattino e di mantenersi giovani e in forma, trattandosi di una sequenza dinamica che richiede dunque anche un certo grado di forza muscolare. I Saluti al Sole:

  • donano elasticità ai muscoli del corpo e alle principali articolazioni;
  • favoriscono la digestione e i movimenti intestinali;
  • rafforzano le ossa;
  • aiutano la mente a concentrarsi attraverso l’attenzione che bisogna riporre sul respiro;
  • respirare in maniera più lunga e profonda favorisce l’ossigenazione del corpo;
  • riequilibrano il sistema nervoso, dando beneficio a chi soffre di stress;
  • aumenta l’energia, dando una sensazione di benessere per tutta la giornata.

Le sequenze dinamiche, come i Saluti al Sole, sono l’ideale porta di ingresso nel mondo dello Yoga per quelle persone che fanno fatica a stare ferme a lungo in una posizione.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato sul portale DiLei – Take Care – Italiaonline

Il crono cinema di Nolan

28 Gen

Se c’è un regista che ha fatto del tempo un elemento cardine della sua cinematografia, quello è certamente Christopher Nolan, visionario autore di film che hanno segnato la storia del cinema, come Memento, Inception e Interstellar, nonché la trilogia del Cavaliere Oscuro, alias Batman. Un regista che è andato oltre gli avanti e indietro narrativi, tipici del cinema post moderno, come accade per esempio in Pulp Fiction di Tarantino, in cui lo spettatore deve ricostruire il filo narrativo. Nelle sue pellicole i piani temporali si intrecciano: in Memento partiamo dalla fine e ricostruiamo gli eventi a ritroso. In altri si viaggia avanti e indietro in un tempo che diventa elemento fluido, in cui lo spettatore a volte perde l’orientamento, anche per volontà del regista stesso. Come succede nel suo ultimo enigmatico film Tenet, che Andrea Chimento, ideatore e direttore responsabile del sito Longtake.it, docente di Istituzioni di Storia del Cinema presso l’Università Cattolica di Milano, ci aiuta a decifrare: “Tenet è l’undicesimo film di Nolan. Undici è un numero palindromo, letto in senso inverso mantiene immutato il significato. Anche Tenet è un titolo palindromo. È un film che va avanti nel tempo, poi a un certo punto torna indietro. Ci si smarrisce facilmente, ma Nolan ci invita anche un po’ a perderci. C’è una frase nel film in cui si dice ‘non cercare di comprenderlo. Vivilo, sentilo (feel it)’”. Ed è in questo lungometraggio che la classica battuta ‘sincronizziamo gli orologi’ assume un significato potenziato. Qui i segnatempo hanno infatti un ruolo narrativo: circa mezzora prima della fine i personaggi vanno a sincronizzarli ed è come se sincronizzassero le loro menti. In un caos temporale in cui si risale solo attraverso l’amore, l’altro grande tema del cinema di Nolan, sotteso in quasi tutti i suoi film, anche quelli di fantascienza. Gli orologi attraverso cui ricostruiamo meglio la trama sono modelli realizzati da Hamilton. Non orologi preesistenti che appaiono nelle scene, bensì segnatempo creati apposta all’interno della divisione di Swatch Group dedicata al mondo del cinema, in un processo di sviluppo tecnico, test di qualità e produzione durato quasi due anni.

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Quello tra il brand e Hollywood è un legame consolidato: dal lontano 1932, quando il primo orologio compare nel grande classico Shanghai Express, con Marlene Dietrich, sono passati oltre 80 anni, con più di 500 apparizioni (tra cui 2001 Odissea nello spazio, The Martian, Independence day – Rigenerazione e Man in Black). Nel corso del tempo si è passati da un semplice product placement a un vero e proprio ruolo all’interno della storia narrata. Anche grazie all’impegno del marchio che, conservando il suo spirito americano, ma con la precisione svizzera, collabora fianco a fianco degli scenografi e dei registi per realizzare orologi unici. Come nel caso di Christopher Nolan e del suo capo scenografo Nathan Crowley, con i quali Hamilton aveva già collaborato su un precedente film, Interstellar (2014), che rappresenta il punto di svolta per il ruolo dei segnatempo nel cinema. È qui che per la prima volta gli orologi hanno un significato narrativo all’interno della trama. I due protagonisti, l’astronauta-padre Matthew McConaughey e la figlia dodicenne, Murph, promessa della matematica, comunicano attraverso due orologi identici, con cui il padre, dallo spazio, manda un messaggio in morse attraverso la lancetta dei secondi alla figlia, sulla Terra. E se “Nolan è il regista più importante nell’ambito del cinema contemporaneo per quanto riguarda la modellazione temporale”, come sottolinea Andrea Chimento, attraverso Tenet e il suo regista Nolan, Hamilton consolida il suo ruolo di “the movie brand”.

Christopher Nolan

Nato a Londra nel 1970, Christopher Nolan è un regista, sceneggiatore e produttore britannico ricercato, uno dei più apprezzati da critica e pubblico. Il suo primo film, Following, è del 1998, ma è con Memento, nel 2000, a budget molto basso ma rilievo molto alto, che la sua carriera si impenna. Arriva a dirigere Al Pacino nel successivo Insomnia e, tre anni più tardi, una trilogia importante, quella del Cavaliere Oscuro, che lo porterà ad avere incassi da record. Ama temi psicologici come la natura della memoria, l’identità personale, il confine tra la realtà e la sua percezione individuale, e lo fa attraverso sceneggiature studiate per anni e una narrazione non lineare, in cui le alternanze temporali sono sempre centrali, come in Inception, Interstellar e nell’ultimo nato, Tenet.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato su Il Corriere della Sera – Orologi del dicembre 2020

Chopard e le miniere che brillano di giustizia

28 Gen

Un minatore che lavora ancora con tecniche di estrazione mineraria alluvionale, con il classico setaccio in mano per vagliare la sabbia aurifera. Un’immagine d’inizio Novecento che ricorda i primi estrattori del Klondike, quelli della famosa corsa all’oro di cui hanno raccontato scrittori e registi, tra cui Charlie Chaplin nel film La febbre dell’oro, capolavoro di poesia in cui un nullatenente che non ha altro cibo se non una zuppa fatta con le sue stesse scarpe, diventa milionario proprio grazie all’oro. Ma è proprio così che lavorano ancora oggi alcuni minatori artigianali in Colombia che Chopard, per una scelta etica, ha deciso di sostenere acquistandone il 100% della produzione. Parliamo della regione di El Chocò, una delle più ricche d’oro, ma anche delle più povere del Paese, in cui la manodopera, al 46% femminile, si avvale di tecniche di raccolta manuale e metodi privi di utilizzo di mercurio, a salvaguardia della biodiversità del territorio. Un metodo certamente non competitivo, ma ecosostenibile, che il brand sostenta ormai da anni e di cui questo è solo l’ultimo tassello in ordine di tempo. Proprio nel 2020 la manifattura svizzera ha stretto una nuova collaborazione con la Swiss Better Gold Association, grazie alla quale acquisterà l’oro dei Barequeros colombiani, i minatori d’oro artigianali, ai quali viene assicurato un prezzo di vendita competitivo e, in più, un premio da reinvestire nelle loro comunità, per migliorare condizioni di vita e di lavoro. Stessa cosa che accade già con altri piccole realtà della Bolivia, per promuovere i minatori d’oro responsabili che lavorano su piccola scala. In questo campo, Chopard è il primo produttore di gioielli e orologi di lusso al mondo ad aiutare le comunità minerarie a ottenere la certificazione Fairmined, che garantisce che l’oro sia estratto in maniera etica, rispettando i lavoratori e l’ambiente, e a fornire loro formazione, assistenza sociale e ambientale.

Una scelta possibile perché Chopard è una delle pochissime realtà che, nella manifattura di Ginevra, ha una fonderia interna. Al piano interrato si trova infatti questo luogo simile al laboratorio di un alchimista dove Paulo, l’artigiano specializzato nella fusione che lavora in azienda da quasi vent’anni, può creare le sfumature di colore desiderate. Voluta da Karl Scheufele, padre di Caroline e Karl Friedrich Scheufele, gli attuali Co-presidenti di Chopard, la fonderia fu creata nel 1978 per integrare e verticalizzare la produzione, a partire dalla fusione dell’oro. Questo ha consentito inoltre di controllare la filiera di approvvigionamento della materia prima, per anni difficilmente tracciabile. Una materia prima che, come le pietre preziose, è spesso legata a criminalità, illegalità e sfruttamento. Elemento che strideva con l’etica e la responsabilità della famiglia Scheufele, che da sette anni ha deciso di muoversi a passo deciso verso un lusso sostenibile.

Si chiama infatti The Journey to Sustainable Luxury il progetto pluriennale intrapreso nel 2013, in collaborazione con Eco-Age e la sua direttrice creativa Livia Firth, con i primi gioielli della Green Carpet Collection realizzati con oro fairmined e diamanti che rispettano la condotta del Responsible Jewellery Council, indossati la prima volta da una sfavillante Marion Cotillard sul red carpet di Cannes. Dal 2014 anche la Palma d’Oro di Cannes, by Chopard, è realizzata in oro fairmined, mentre nel 2014 a Basilea è stato presentato il primo segnatempo d’Alta Orologeria in oro responsabile al mondo, il L.U.C. Tourbillon QF Fairmined. Un anno più tardi, attraverso la partnership con la raffineria d’oro svizzera PX Précinox Sa, anche l’esportazione e la raffinazione dell’oro vengono sottoposte a rigidi controlli e hanno piena tracciabilità. Si arriva poi al 2018, l’anno del traguardo più importante: da allora tutta la filiera Chopard è al 100% in oro etico. “La sostenibilità è un obiettivo in movimento, è un viaggio che non finisce mai”, afferma Caroline Scheufele, co-presidente e direttrice artistica della manifattura. “Oggi più che mai deve rappresentare una priorità per proteggere le persone sul campo che, con il loro lavoro, rendono possibile la nostra attività”. Un approccio da pionieri che aiuta le comunità più povere del mondo e allo stesso tempo conferisce alla Maison una significativa differenziazione rispetto ai competitor. La coscienza ha un prezzo e Chopard è felice di pagarlo.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato su Il Corriere della Sera – Orologi del dicembre 2020

Creative Minds: Margherita Casprini

27 Ott

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Cresciuta respirando aria di architettura nello studio del padre, architetto a Firenze, quasi inevitabilmente Margherita Casprini sceglie la matita come prima amica e compagna di vita. Che non ha mai tradito, ma scelto e riscelto a ogni bivio che le si è presentato, superando il destino di figlia d’arte e abbracciando la libera professione “per seguire quello che desideravo veramente”, dopo aver insegnato per un breve periodo architettura d’interni a La Spezia.

Determinante è l’incontro con Francesco Paszkowski nel 2006. “Ho cominciato a collaborare con lo studio Paszkowski per gli interni, dando il mio contributo per la ricerca di nuovi materiali, una componente fondamentale nei progetti. Con il tempo il lavoro dello studio è aumentato e mi sono fatta coinvolgere. Con Paszkowski ho imparato a considerare il progetto come un corpo unico, anche se ho continuato a lavorare solo agli interni sotto la guida di Francesco”. Questo significa anche il décor, l’illuminazione, la progettazione di mobili e lampade custom, l’allestimento completo della barca “anche per oggetti di uso quotidiano a bordo, come piatti e asciugamani, bicchieri e cuscini, per mantenere anche in questo la coerenza del progetto”. La sfera d’intervento di Casprini si amplia giorno dopo giorno e i confini del mondo della nautica, il core business dello studio, vengono oltrepassati. Nascono oggetti e progetti di case. “A bordo di Papi du Papi, 50 metri costruito da Isa nel 2011, il décor creato era fondato su due sole essenze, unito a vetro e pelle, materiali che facevano da “contenitore” ai mobili custom e agli oggetti personali che l’armatore possedeva e desiderava avere a bordo. Dopo aver realizzato la sua barca, l’armatore ha affidato allo studio anche il progetto della sua casa. L’approccio è stato simile. Per il progetto della sua dimora, abbiamo lavorato su scelte architettoniche e definizione degli spazi, dove quinte in arredo creano i diversi ambienti senza separazioni nette. Come a bordo, la luce ha giocato un ruolo importante, mirato a esaltare il contrasto luci-ombre, creato dai materiali”. Anche in questo caso i mobili progettati per l’esterno “ricordano la forma di quelli all’interno per coerenza progettuale, come facciamo anche nelle barche quando ci occupiamo di interni ed esterni”. Nel suo lavoro Casprini é supportata dallo staff dello studio dove oggi lavorano designer di diverse nazionalità. “È stimolante lavorare in un ambiente così eterogeneo e so di essere una persona fortunata perché ho avuto l’opportunità di fare il lavoro che mi piace. Il contatto con il cliente e il controllo della produzione sono necessari per ottenere un risultato che esprima equilibrio e armonia, qualunque sia il gusto – classico, contemporaneo o minimalista – del committente. A volte può essere molto impegnativo, ma fondamentale. Lavorando con Paszkowski, che vanta una lunga esperienza, ho cercato di proporre le mie idee, ma anche di “rubargli il mestiere” e ho imparato che ascoltare e osservare sono indispensabili per affrontare un progetto che possa soddisfare i desideri del cliente. Abbiamo un confronto quotidiano costruttivo, soprattutto quando partiamo da posizioni diverse”. Sono numerosi i progetti affidati allo studio Paszkowski da privati e da cantieri, nella nautica e nel residenziale, ai quali Margherita Caprini collabora attualmente. Non ci sarà da stupirsi se lo studio dovesse un giorno pensare di creare una nuova struttura per lo sviluppo di prodotti di design destinati anche ad altri settori.

 

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato su THE ONE – Yacht and Design Amber issue – del 2017

Intervista a Luca Zingaretti

16 Gen

pubblicata su ON - dicembre 2010

E’ uno dei volti più amati dal pubblico televisivo e apprezzati da quello cinematografico, che lo ricorda per esempio nel ruolo del prete antimafia in Alla luce del sole e dello spacciatore disabile in La nostra vita. Di lui i fan, e le accanite fan, sanno tutto. In questa intervista, però, lo scopriremo molto ironico, profondo d’animo e… giardiniere.
In questo momento è sul set? Sto lavorando a molte cose insieme. Ma mi sono preso un semestre di riflessione dopo tanti anni pienissimi in cui avevo poco tempo per me. Credo sia bene per un attore fermarsi ogni tanto e ascoltare quello che gli succede intorno. Una citazione che le torna spesso in mente? “Le aquile volano sole, i corvi volano in schiera”. È una battuta che Visconti fa dire a Helmut Berger dal professor Burt Lancaster. Mi piace perché è un invito a non massificarsi, a non cercare a tutti i costi di conformarsi alla maggioranza, e a riflettere sulle proprie scelte, costi quel che costi, anche la solitudine.

Cosa ricorda di Perlasca. Un eroe italiano? La storia di Perlasca era così straordinaria da sembrare non vera e la sceneggiatura era scritta da Rulli e Petraglia, due talenti unici. Incontrare le persone che erano state salvate da Perlasca, parlare con chi lo aveva intimamente conosciuto, è stata un’esperienza umana e professionale incredibile.
Qualche anno fa dichiarò “Mi piacciono valori come la patria, la bandiera, l’inno”. Pensa che oggi siano in declino? Credo di sì. Quando vado all’estero mi fa rabbia sentire come gli stranieri siano orgogliosi delle loro origini, della loro appartenenza a una nazione. Noi invece… Anche quelli che si riempiono e si riempivano la bocca con
queste parole si sono poi dimostrati i meno attenti ai valori fondamentali a cui si richiamavano. Ma anche per questo
Patria, bandiera, inno, e parole come identità e appartenenza, mi piacciono di più: non bisogna credere alle cose
perché sono di “moda”, ma pensare con la propria testa e affermare le idee in cui si crede anche se non tutti sono d’accordo.

Nel suo ultimo film, Noi Credevamo di Mario Martone (uscito il 12 novembre scorso), interpreta lo statista Francesco Crispi. Cosa ha scoperto di lui? Mi sono dovuto documentare su un periodo storico che conoscevo appena. A scuola il Risorgimento viene affrontato sempre male. Studiando, ne ho scoperto l’importanza per interpretare il presente: molti dei mali e dei problemi che ci affliggono oggi originano da questioni che, non risolte allora, ci portiamo ancora dietro. Anche Crispi è un prototipo del politico italiano: ambiguo, invischiato in vicende poco chiare, trasformista e spregiudicato. Ho cercato di rendere questo aspetto di “liquidità” del personaggio.
Digitando su You Tube “Luca Zingaretti”, dei primi quattro video che compaiono, tre riguardano lei come sex symbol. Cosa ne pensa? Che è una ficata! Ma non è una questione di vanità, è che mi piace pensare che questo significhi aver conquistato il pubblico femminile. C’è poco da fare: le donne sono più intelligenti e sensibili. Loro
prima di vedere e ascoltare,“sentono” le cose e le persone. Non le puoi fregare! Il pubblico femminile è molto più attento, esigente, competente e si fa conquistare con molta più difficoltà. Una volta però che lo hai preso, non ti tradisce. Se non lo tradisci tu, ti resta vicino.

Di quale regista/i non perde un film? Sono molto contento di come stia andando il cinema italiano. All’estero, morto Kubrick, il più grande di tutti, il migliore per me resta Milos Forman.

copertina di ON - dicembre 2010

Dove comprerebbe casa domani? A Parigi, città meravigliosa, e Barcellona, perché è altrettanto meravigliosa con in più il mare.

In molte interviste si definisce un tipo istintivo, a volte collerico. Come trova, invece, il relax? Sono una persona normalissima, solo che ogni tanto mi inc… Mi piacciono tante cose: andare a vela, giocare a pallone, leggere, scrivere, provare a disegnare, conoscere la gente. Ultimamente ho scoperto una cosa che mi dà una pace interiore incredibile: occuparmi delle piante. L’avevo sempre considerato una perdita di tempo, poi ho provato a Pantelleria a potare dei piccoli ulivi che avevo piantato qualche anno prima: è stata una grande scoperta.
Il più bel complimento? Se fatti con sincerità, fanno tutti piacere. Per me i più significativi, però, sono quelli che vengono dalle persone delle troupe. È gente che passa la vita sui set e ne vede di tutti i colori. Mi ricordo quello di un assistente ai fuochi (è la persona che fa sì che le cose filmate restino a fuoco). A un certo punto il regista dette lo stop perché il mio volto in primo piano appariva sfocato. Si voltò a guardare l’assistente ai fuochi e lui di rimando: “Ahò, e che ve devo dì, me so distratto! Me so messo a sentì che stava a dì!”.

Articolo scritto da: Samuela Urbini
Clicca qui per vedere l’intervista a Luca Zingaretti pubblicata su ON di dicembre 2010: ON dicembre_Zingaretti
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