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Creative Minds: The Italian Sea Group

21 Mag

Profondamente legato alla maestria e al buon gusto Made in Italy, The Italian Sea Group in un decennio è riuscito a diventare il primo produttore in Italia di megayacht sopra i 50 metri, con un’ascesa che non accenna a fermarsi. Operatore globale della nautica di lusso, dal 2021 è anche quotato in borsa su Euronext Milan e la sua storia è puntellata di acquisizioni di importanti marchi della nautica italiana. Primo in ordine di tempo, Tecnomar nel 2009, seguito da Admiral nel 2011, rilevati da Giovanni Costantino, fondatore e Ceo del gruppo, che nel 2012 acquisisce ancheNuovi Cantieri Apuania di Marina di Carrara. Nel 2020 viene ufficialmente fondato The Italian Sea Group a cui, nel 2021, si sono aggiunti altri due grandi nomi: Perini Navi, leader nella produzione di yacht a vela di grandi dimensioni, e Picchiotti, un cantiere che per oltre quattro secoli ha segnato la storia della marineria militare, commerciale, da diporto e sportiva. Di cui Costantino va particolarmente orgoglioso: “Picchiotti è un brand nato nel 1575 con una storia che parte dai Medici di Firenze, che ha acceso il mio interesse, oltre al mio entusiasmo. Ho deciso di investire molto nella rinascita di questo meraviglioso nome, parallelamente a quello di Perini Navi”.

Il progetto di rilancio di Picchiotti prevede una flotta di quattro motoryacht da 24 a 55 metri denominata Gentleman, dal design elegante ispirato ai panfili americani degli anni ’60 realizzato insieme a Luca Dini Design & Architecture e con la partecipazione di Kurt Lehman e la sua Yacht Moments Consultant. Il cui principale mercato saranno le Americhe, come evidenziano anche alcuni dettagli estetici: “Abbiamo scelto di rivestire la tuga e l’interno delle falchette in mogano, materiale che nasce con la cultura americana”, spiega Costantino. “Le culle, le case, i bar in America sono in mogano. I dettagli di interior e di exterior, oltre alla linea dei nostri motoryacht, sono tutti Usa”. Un mercato fondamentale per lo sviluppo commerciale internazionale del brand, coerente anche con l’inaugurazione del primo flagship store statunitense a East Hampton, Long Island, avvenuta lo scorso 8 agosto.

Con questo progetto The Italian Sea Group entra per la prima volta nel campo della produzione in serie, pur mantenendo un posizionamento alto rispetto ai competitor: “Nella serialità, ciò che differenzia Gentleman Picchiotti dagli altri brand italiani è una produzione estremamente raffinata a livello di dettaglio qualitativo, sia interno che esterno, e la scelta dei materiali: noi non lavoriamo la vetroresina anche per una policy aziendale di sostenibilità, quindi anche il 24 metri sarà in alluminio”, specifica il Ceo. “Inoltre, non abbiamo una capacità produttiva infinita. Questo progetto punta, come tutto il resto, ad assoluta eccellenza. Potremo arrivare a 10 consegne l’anno, non di più. È, e resterà, un prodotto altissimo di gamma e di nicchia”.

Un’apertura alla produzione in serie che coinvolge anche il marchio Admiral con il progetto Panorama, nato in collaborazione con lo studio Piredda & Partners: un superyacht di 50 metri in acciaio con sovrastruttura in alluminio, ricercato anche nei materiali degli interni, naturali e pregiati, come il legno chiaro, le pietre e i metalli ruvidi, e con una cabina armatoriale panoramica posta a prua dell’upperdeck, con affaccio sul ponte privato. “La produzione seriale ci consentirà di ampliare le vendite evitando il coinvolgimento della capacità progettuale del gruppo impegnata verso i grandi yacht custom made”, che rappresentano sempre il core business aziendale.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato su THE ONE – Yacht and Design Titanium issue del 2022

Hermès, orologi per viaggiare con la fantasia

17 Giu

Non lavorate con i designer di orologi. Quando nel 1978 Jean-Louis Dumas fondò a Bienne, in Svizzera, La Montre Hermès, aveva una visione ben chiara. Una frase pronunciata in tono umoristico, che significava che gli altri brand svolgevano egregiamente il loro mestiere da secoli e che se Hermès entrava in questo settore era per fare qualcosa di diverso, portando la propria firma, legata al mondo della fantasia e dell’immaginazione, in grado di far sognare i propri estimatori. Puntando comunque su una solida tecnica, altrettanto importante, con movimenti di manifattura che negli anni si sarebbero raffinati, come di fatto è avvenuto in quasi 45 anni di storia. Le complicazioni in casa Hermès sono dunque pensate al servizio della leggerezza e della poesia, sono il mezzo per comunicare un’idea, e non un obiettivo fine a se stesso. Così è stato per alcuni modelli recenti, come Arceau L’heure de la Lune del 2019, che ha rivoluzionato il modo di concepire le fasi lunari, e così è per l’ultimo in ordine di tempo, l’Arceau Le Temps Voyageur, l’interpretazione del marchio della funzione “ore del mondo”. Che prende vita dal polivalente calibro automatico di manifattura H1837 realizzato in collaborazione con Vaucher sul quale, tramite un sofisticato modulo aggiuntivo, è stata allestita una complicazione perfettamente in linea con la filosofia del brand.

Di orologi world timer sul mercato ne esistono infatti già tanti. Questo però sortisce un effetto sorpresa perché non è il classico anello delle città a girare, bensì il piccolo quadrante di ore e minuti dedicato all’ora locale che, come un satellite, orbita al centro del disco perimetrale, spostandosi di un’ora avanti a ogni pressione del pulsante a ore nove in modo da indicare con la freccetta rossa la città di riferimento del fuso orario. Oltre a chi indossa l’orologio, dunque, anche il tempo stesso è il viaggiatore, da cui il nome del modello, che nel concept iniziale del team creativo diretto da Philippe Delhotal era rivolto sia a chi prende aerei tutte le settimane, sia a chi un viaggio lo compie anche leggendo un libro, o sognando con la fantasia. Per evocare questo mondo surreale, la mappa finemente decorata sul quadrante, ispirata a un’installazione di Jérôme Colliard, ha mari e continenti fittizi con nomi legati al mondo equestre, caro alla maison. Un tocco di follia che rende l’Arceau Le Temps Voyageur ancora più originale. A ore 12 inoltre, una finestrella indica l’ora di casa, parte di quel modulo di 122 componenti, riuniti in soli 4,4 mm di spessore, che un meticoloso lavoro di armonizzazione durato tre anni ha racchiuso in una cassa in platino da 41 mm o in acciaio da 38 mm. Il cui design è ancora quello originario creato da Henri d’Origny nel 1978, con le sue anse asimmetriche.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera – Dorso Orologi di maggio 2022

Swatch e la bioplastica

20 Feb

In un mondo sempre più inquinato e avvelenato dalla presenza antropica, parole come “ecosostenibilità”, “bio” e “naturale” sono diventate centrali all’interno delle aziende più innovative, sempre alla ricerca di nuovi materiali in grado di ridurre al minimo l’impatto della produzione sul Pianeta. Anche di quelle che sulla plastica hanno costruito le proprie fortune. Esempio calzante, quello di Swatch, non a caso alle prese quest’anno con l’ennesima rivoluzione di questo materiale con il progetto Bioreloaded. Non che il colorato orologio del brand sia mai stato visto come un oggetto inquinante, ma anche le materie plastiche, in quasi 40 anni, hanno fatto passi da gigante. E dal momento che quando si parla di innovazione in casa Hayek non si è mai lesinato, in Swatch hanno lavorato per due anni e mezzo per mettere a punto una plastica innovativa introdotta con la nuova collezione “1983”. Bio-sourced, ossia di origine vegetale perché a base di estratti di semi di ricino.

La collezione si chiama così perché reinterpreta gli Swatch usciti proprio in quell’anno ed è la prima nella quale un produttore di orologi riesce a sostituire tutti i materiali plastici convenzionali con altri di origine biologica in una produzione di larga serie. “La materia prima da cui partiamo arriva dalla Francia”, spiega Carlo Giordanetti, Ceo The Swatch Art Peace Hotel. “Ma Swatch ama verticalizzare, quindi la produzione rimane nostra. La prima volta che ci proposero una plastica alternativa è stato 25 anni fa e veniva dal mais. Ma era troppo morbida e non si riusciva a lavorare. Avere oggi una materia prima bio generata con la trasparenza e la resistenza del suo equivalente tradizionale è davvero straordinario”. Un lungo processo di sperimentazione si è reso necessario per mettere a punto una formula soddisfacente per il reparto creativo, senza compromessi sul lato dei colori e delle trasparenze, cifra stilistica del marchio, e della produzione. “Dato che il nostro processo produttivo si basa su di un sistema di micro iniezione, non si può adattare a qualsiasi tipo di plastica. È la plastica che si deve adattare alla costruzione”, specifica Giordanetti.

Ma la strada è ancora lunga, e tortuosa. Perché in realtà i nuovi materiali sono due, con la stessa origine ma differente composizione: uno per la cassa, che ha una sua rigidità e che soddisfa già i requisiti del brand, può essere colorata e addirittura resa trasparente (lo dimostra il “vetro” dell’orologio, del medesimo materiale). E uno per il cinturino, sul quale la sperimentazione è invece ancora in corso in quanto ancora non consente di raggiungere le trasparenze e le cromie che la creatività del brand richiede. Ulteriore novità, tutti gli Swatch avranno inoltre un packaging realizzato in PaperFoam, derivante da una miscela di amido di patate e tapioca, biodegradabile e riciclabile nella carta o compostabile a casa propria. Una nuova produzione in linea con i diciassette obiettivi per lo sviluppo sostenibile Onu, da raggiungere entro il 2030, che una marca etica come Swatch ha ben presenti. “La vision è quella di arrivare a realizzare con queste plastiche tutti i nostri modelli, conclude Giordanetti. “Quello su cui Swatch però non può e non vuole trovare compromessi è l’influenza sul potenziale creativo”.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato su Il Corriere della Sera – Orologi del dicembre 2020

Anita Porchet, la regina degli smalti

10 Feb

Un atelier con vista sulla natura di Corcelles-le-Jorat, a poca distanza dalla culla dell’orologeria svizzera di grande precisione. Un tavolo da lavoro gremito da una miriade di barattolini colorati, il cui contenuto, nelle mani sapienti della smaltatrice più rinomata dell’industria del tempo, diventa materiale prezioso che rende unici orologi già raffinati di per sé. È questo il luogo magico in cui Anita Porchet, una donna dalla voce dolce e pacata, attraverso il fuoco trasforma i suoi materiali tradizionali in meravigliosi quadranti artistici, con infinita concentrazione, pazienza e precisione. Una maestria tipica di chi ha imparato questo mestiere da bambina, che l’ha portata a vincere una serie infinita di premi ed a collaborare con le più grandi manifatture di alta orologeria. L’ultima in ordine di tempo, Audemars Piguet per la quale ha realizzato una trilogia di quadranti in smalto paillonnée “Grand Feu” per il Grande Sonnerie Carillon Supersonnerie della collezione Code 11.59 by Audemars Piguet. Un supercomplicato con Grande Soneria, una delle complicazioni più raffinate della storia dell’alta orologeria, che solo un ristretto gruppo di orologiai è in grado di realizzare, assemblare e regolare. Che qui si accompagna alla Supersonnerie, innovativa tecnologia brevettata dalla manifattura all’insegna di una performance acustica ancor più sopraffina, ed alla funzione carillon, riassunti in una complessa meccanica da ben 489 componenti.

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Proprio in omaggio ai Grande Sonnerie realizzati nella Vallée de Joux tra il XVII e il XIX secolo, che erano in smalto, la marca ha intrapreso una collaborazione con la smaltatrice svizzera, che ha decorato ogni quadrante con antichi lustrini d’oro, secondo la tecnica paillonné. “Ho iniziato a lavorare con Audemars Piguet un anno fa”, raccontata l’artista. “Di solito i brand vengono da me con delle idee ben precise. Questa volta è stato diverso. Desideravo lavorare con la tecnica paillonné, non l’avevo mai fatto prima. Hanno compreso pienamente il mio mestiere e mi hanno dato completa libertà. È davvero insieme che abbiamo creato questi pezzi unici”. Il paillonné è un’arte unica nel suo genere. Anita Porchet ha tagliato a mano foglie d’oro risalenti a oltre un secolo fa, attraverso tecniche e strumenti antichi, per dare la forma desiderata ai lustrini (paillon), poi meticolosamente incorporati sul disco smaltato del quadrante, prima di passare alla fusione nel forno. “I tre quadranti usano paillons con una struttura geometrica. Linee rette, piccoli anelli. Lavoro con gli stessi strumenti che si usavano il secolo scorso. Ho a cuore il concetto di lavorare così come mi è stato insegnato. Per me la perfezione non fa la bellezza, è piuttosto l’opposto. Anche se ricerco la perfezione, e so che la cercherò per sempre, questa simmetria imperfetta è sinonimo di vita”. Per trovare il colore desiderato che mettesse in evidenza i paillon d’oro, ha combinato cinque colori diversi. “È un processo lungo. Non si tratta solo del tempo impiegato per la creazione, ma anche del tempo di riflessione. Posiziono il materiale, lo rimuovo, lo sostituisco. La creazione del terzo quadrante, per esempio, è stata più lunga e laboriosa, perché ho utilizzato la tecnica del cloisonné, oltre al paillonné. Non a caso ho avuto un problema tecnico nella realizzazione proprio dell’ultimo pezzo della trilogia, ma sono molto contenta del risultato”. Tre orologi unici con una straordinaria unione di innovazione e tradizione, ai quali si aggiungeranno altri due esemplari per i quali i clienti potranno richiedere un quadrante personalizzato, sempre realizzato nello studio di Anita Porchet.

Audemars Piguet

Fondata nel 1875 a Le Brassus, Audemars Piguet è la più antica manifattura di alta orologeria tuttora esistente ad essere ancora guidata dalle famiglie fondatrici, Audemars e Piguet. Meccanismi con suoneria, cronografi e complicazioni astronomiche erano e sono il suo fiore all’occhiello. Legata alle sue origini artigianali, conserva savoir-faire rari ed antichissimi, che si impegna a tramandare attraverso orologi unici, sovente impreziositi da un tocco artistico.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato su Il Corriere della Sera – Orologi del dicembre 2020

Il crono cinema di Nolan

28 Gen

Se c’è un regista che ha fatto del tempo un elemento cardine della sua cinematografia, quello è certamente Christopher Nolan, visionario autore di film che hanno segnato la storia del cinema, come Memento, Inception e Interstellar, nonché la trilogia del Cavaliere Oscuro, alias Batman. Un regista che è andato oltre gli avanti e indietro narrativi, tipici del cinema post moderno, come accade per esempio in Pulp Fiction di Tarantino, in cui lo spettatore deve ricostruire il filo narrativo. Nelle sue pellicole i piani temporali si intrecciano: in Memento partiamo dalla fine e ricostruiamo gli eventi a ritroso. In altri si viaggia avanti e indietro in un tempo che diventa elemento fluido, in cui lo spettatore a volte perde l’orientamento, anche per volontà del regista stesso. Come succede nel suo ultimo enigmatico film Tenet, che Andrea Chimento, ideatore e direttore responsabile del sito Longtake.it, docente di Istituzioni di Storia del Cinema presso l’Università Cattolica di Milano, ci aiuta a decifrare: “Tenet è l’undicesimo film di Nolan. Undici è un numero palindromo, letto in senso inverso mantiene immutato il significato. Anche Tenet è un titolo palindromo. È un film che va avanti nel tempo, poi a un certo punto torna indietro. Ci si smarrisce facilmente, ma Nolan ci invita anche un po’ a perderci. C’è una frase nel film in cui si dice ‘non cercare di comprenderlo. Vivilo, sentilo (feel it)’”. Ed è in questo lungometraggio che la classica battuta ‘sincronizziamo gli orologi’ assume un significato potenziato. Qui i segnatempo hanno infatti un ruolo narrativo: circa mezzora prima della fine i personaggi vanno a sincronizzarli ed è come se sincronizzassero le loro menti. In un caos temporale in cui si risale solo attraverso l’amore, l’altro grande tema del cinema di Nolan, sotteso in quasi tutti i suoi film, anche quelli di fantascienza. Gli orologi attraverso cui ricostruiamo meglio la trama sono modelli realizzati da Hamilton. Non orologi preesistenti che appaiono nelle scene, bensì segnatempo creati apposta all’interno della divisione di Swatch Group dedicata al mondo del cinema, in un processo di sviluppo tecnico, test di qualità e produzione durato quasi due anni.

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Quello tra il brand e Hollywood è un legame consolidato: dal lontano 1932, quando il primo orologio compare nel grande classico Shanghai Express, con Marlene Dietrich, sono passati oltre 80 anni, con più di 500 apparizioni (tra cui 2001 Odissea nello spazio, The Martian, Independence day – Rigenerazione e Man in Black). Nel corso del tempo si è passati da un semplice product placement a un vero e proprio ruolo all’interno della storia narrata. Anche grazie all’impegno del marchio che, conservando il suo spirito americano, ma con la precisione svizzera, collabora fianco a fianco degli scenografi e dei registi per realizzare orologi unici. Come nel caso di Christopher Nolan e del suo capo scenografo Nathan Crowley, con i quali Hamilton aveva già collaborato su un precedente film, Interstellar (2014), che rappresenta il punto di svolta per il ruolo dei segnatempo nel cinema. È qui che per la prima volta gli orologi hanno un significato narrativo all’interno della trama. I due protagonisti, l’astronauta-padre Matthew McConaughey e la figlia dodicenne, Murph, promessa della matematica, comunicano attraverso due orologi identici, con cui il padre, dallo spazio, manda un messaggio in morse attraverso la lancetta dei secondi alla figlia, sulla Terra. E se “Nolan è il regista più importante nell’ambito del cinema contemporaneo per quanto riguarda la modellazione temporale”, come sottolinea Andrea Chimento, attraverso Tenet e il suo regista Nolan, Hamilton consolida il suo ruolo di “the movie brand”.

Christopher Nolan

Nato a Londra nel 1970, Christopher Nolan è un regista, sceneggiatore e produttore britannico ricercato, uno dei più apprezzati da critica e pubblico. Il suo primo film, Following, è del 1998, ma è con Memento, nel 2000, a budget molto basso ma rilievo molto alto, che la sua carriera si impenna. Arriva a dirigere Al Pacino nel successivo Insomnia e, tre anni più tardi, una trilogia importante, quella del Cavaliere Oscuro, che lo porterà ad avere incassi da record. Ama temi psicologici come la natura della memoria, l’identità personale, il confine tra la realtà e la sua percezione individuale, e lo fa attraverso sceneggiature studiate per anni e una narrazione non lineare, in cui le alternanze temporali sono sempre centrali, come in Inception, Interstellar e nell’ultimo nato, Tenet.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato su Il Corriere della Sera – Orologi del dicembre 2020

Il design non è solo l’aspetto e la percezione: il design è come funziona

3 Dic

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“La mia idea di design? È un rapporto di sintesi e perfetto equilibrio, tra forma e funzione”, spiega l’architetto Bernardo Zuccon che, insieme alla sorella Martina, guida lo studio Zuccon International Project, fondato a Roma nel 1976 dai genitori, Gianni Zuccon e la moglie Paola Galeazzi. Attivo in ambiti diversi, è però nel settore della nautica che si distingue anche a livello internazionale, collaborando in modo costante con alcuni dei più importanti cantieri navali italiani, tra cui Ferretti Yachts, Custom Line, CRN e Picchiotti. “Ancora prima di iniziare a parlare di design, però, bisogna partire da quello che è il punto di partenza primordiale per qualsiasi esperienza progettuale: l’uomo. L’uomo è la creatura che vive fisicamente lo spazio e gli oggetti che noi designer creiamo e, al contempo, è anche il riferimento proporzionale ed ergonomico per garantire un equilibrio funzionale, fondamentale per parlare poi di design”.

Tiene fede

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a questo principio di base Heritage, il 45 metri che inaugura la collaborazione dello studio con Picchiotti Yachts, che “nasce dalla volontà di creare un ecosistema marino dove l’uomo è in grado d

i svolgere quell’attività che è l’obiettivo finale che ogni yacht designer deve avere chiaro in mente: vivere il mare”. Heritage infatti ha volumi interni generosi, si pensi che su tutto il ponte di coperta l’altezza è di tre metri, enfatizzati da un ampio uso del vetro che crea continuità tra gli interni e il mare. “A bordo il rapporto tra forma e funzione si sposta più verso la funzionalità”, aggiunge Zuccon. “Perché mantiene e approfondisce alcuni parametri della scansione volumetrica, staccandosi però dall’interpretazione in cui è la forma a comandare. Heritage non è un bellissimo involu

cro che impone i suoi limiti all’uomo, proprio perché siamo partiti dal concetto che è l’uomo a creare l’architettura della barca”. Heritage è un omaggio al più importante designer che ha lavorato con Picchiotti, Gerhard Gilgenast, e ne ripropone lo stile tipico, reinterpretato in chiave moderna. La sua peculiarità è la capacità di trasportare molti toys, due tender (una barca a vela e una a motore, di nove metri ciascuna) e due moto d’acqua, proprio come chiedono oggi molti armatori.

Guardando al passato, Zuccon ricorda con affetto ed emozione Custom Line Navetta 37, ilprimo progetto nato da una sua intuizione personale, la prima vera barca completamente figlia sua e di sua sorella Martina. Nel suo stile di design è affascinato dal concetto di ibridazione tipologica, che gli permette di lavorare su contaminazioni stilistiche e funzionali trasversali, che attingono non solo dal mondo della nautica, ma anche del design, dell’architettura e dell’automotive. “Sono convinto però che i progetti più belli siano quelli che ci aspettano domani. Per me e lo studio questo è un momento significativo, con l’avvio di nuove collaborazioni con Perini e Sanlorenzo. Ci troviamo come all’inizio di una nuova storia d’amore, quando tutto è meraviglioso e c’è grandissimo entusiasmo. Per Sanlorenzo progetteremo dalle imbarcazioni piccole in vetroresina a quelle più grandi in metallo; con Perini invece proporremo prodotti di grandi dimensioni, estremamente customizzati”. Uno sguardo al futuro in cui non mancherà mai il lavoro di ricerca, presenza appassionata e costante nel lavoro dell’architetto.

 

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato su THE ONE – Yacht and Design Teak issue del 2018

Creative minds: Francesco Paszkowski

12 Nov

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Sensibilità e capacità di ascolto dei bisogni del cliente, uniti a una profonda conoscenza di tutti i processi che contribuiscono alla nascita di uno yacht, sono alla base del successo di Francesco Paszkowski Design, lo studio fondato a Firenze nel 1990 dall’omonimo designer, che ha lavorato con i maggiori cantieri italiani e internazionali, tra cui le collaborazioni storiche con Baglietto, Heesen Yachts e Sanlorenzo. “In un contesto in rapida evoluzione, come quello della nautica, la propria esperienza non basta mai”, spiega Paszkowski. “La storia del cantiere, il lavoro di coloro che sono coinvolti nella costruzione della barca, dall’ordine al varo, una stretta comunicazione tra il reparto tecnico del costruttore, il proprietario e lo studio di design sono fondamentali nel processo di progettazione”.

Inizia a lavorare col padre, Giovanni, e con Pierluigi Spadolini, uno dei grandi maestri dell’architettura moderna e del design italiano e “nel 1986, quando ebbi l’opportunità di disegnare barche, il desiderio di esprimere me stesso era più forte di qualunque altra cosa”, ricorda il designer, nato a Milano, ma ormai radicato a Firenze. Da allora ha realizzato yacht plananti e disolocanti di serie, custom, in vetroresina e in alluminio, inizialmente solo come design esterno, ma già dal 1996 anche per gli interni, viste le crescenti richieste di progetti che includessero ogni aspetto.

Incarna questa filosofia progettuale a tutto tondo Custom Line 120, il primo yacht planante ideato per Custom Line, i cui principi guida richiesti dal cantiere erano due: creare un restyling della linea, mantenendo la continuità del marchio, e aumentare il contatto con il mare.

“Abbiamo voluto dare un profilo filante e potente allo scafo: linee tese corrono da poppa a prua dando vita a un’emozionante alternanza materica e cromatica di superfici strutturali chiare e vetrate scure”, dice il designer. “Un’innovazione sostanziale è la sovrastruttura rialzata rispetto alla coperta. Le finestrature laterali, cielo-terra, trasformano il salone in una terrazza panoramica che offre una vista ineguagliabile”, continua. “Le finestre laterali, leggermente ricurve, la scelta di eliminare la falchetta davanti al salone e nella suite armatoriale a prua enfatizzano la sensazione di essere ancora più vicini e a stretto contatto con l’acqua”.

Per gli interni, realizzati in collaborazione con Margherita Casprini, il layout si ispira ai codici dell’arredamento domestico di lusso: ne sono un esempio le colonne di sostegno, che includono sistemi d’illuminazione, audio e aria condizionata; o l’unico open space arricchito da tendaggi che dividono, senza separare in modo netto. Una grande vetrata separa il salone dal pozzetto, suddivisa in due sezioni che si aprono anche a ribalta, così da creare una grande area esterno-interno, concepita come una lounge rivestita in teak e arredata in stile con gli interni. Ed è stata data anche un’attenzione particolare alle aree esterne, da sempre un tratto peculiare del marchio. Sull’upper deck, l’area relax con vasca idromassaggio può essere riparata dal sole grazie a un bimini a scomparsa nell’hard top, sostenuto a poppa da due pali integrati alla sovrastruttura.

Ecco dunque che le nuove soluzioni tecniche e l’intero progetto delle linee esterne e interne sono strettamente legati fra loro come parti di un unico impianto architettonico, in cui forma e funzione sono perfettamente bilanciati. In puro stile Francesco Paszkowski Design.

 

 

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato su THE ONE – Yacht and Design Amethist issue – del 2017

Horacio Bosso: Truly unique

5 Nov

Argentino di nascita, ma di origini italiane, Horacio Bozzo è un designer e ingegnere navale cosmopolita che ha studiato a Buenos Aires, ha iniziato la sua carriera a Roma, per poi trasferirsi in uno studio di alto profilo a Fort Lauderdale, negli Usa. Dopo qualche anno, è proprio qui, nel 1996, che fonda il suo studio di ingegneria navale, Axis Group Yacht Design, che attualmente impiega 16 persone. Nel 2000 è poi tornato in Italia e qui ha dato vita a Horacio Bozzo Design, il suo brand che si occupa esclusivamente di design di esterni e interior layout di superyacht.

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“Mi piace che i miei yacht abbiano una forte personalità, ma che siano rappresentabili con poche linee, minimalisti”, sintetizza Bozzo. Nei modi gentili e pacati con cui ci racconta dei suoi progetti, si percepiscono una grande passione per il suo lavoro e una forte determinazione, che è il motore della sua brillante carriera che l’ha portato a lavorare con i più grandi cantieri internazionali, tra cui Lurssen, Fincantieri, Perini Navi, Benetti e Azimut, con progetti che vanno dai 40 ai 140 metri. “Fin da piccolo, quando ho capito che avrei voluto fare questo mestiere, ho pensato che l’unica maniera sarebbe stata prima studiare le barche, capire come sono fatti uno scafo, la struttura, gli impianti, per poi poter progettare le mie, innovando. Senza conoscere in profondità come è fatto uno yacht, non avrei avuto gli elementi per poter innovare, ma solo per emulare”.

Questa esigenza di creare progetti davvero unici lo ha portato ad avere uno stile personale che si distingue e che è evidente in uno dei suoi concept più recenti, Private Bay, un mega yacht di 123 metri realizzato insieme a Fincantieri Yachts. Con più di 1300 mq di spazi interni ed esterni, dislocati su sei ponti, in grado di accogliere 18 passeggeri e 31 persone d’equipaggio, Private Bay ha sia zone di privacy assoluta, come richiedono gli armatori di yacht come questi, sia spazi a diretto contatto con l’acqua e dedicati al divertimento, caratteristica molto più rara. “La poppa è unica: è un Open beach club di 160 mq, con piscina a livello del mare, pensata per un armatore magari con figli piccoli, che ha voglia di vivere il mare in maniera più informale, insieme agli amici. L’idea mi è venuta pensando a come vorrei io una barca così grande e insieme a Fincantieri Yachts abbiamo trovato la maniera di renderlo possibile”. Già, perché strutturalmente una poppa di questo tipo, molto larga, poneva dei problemi di stabilità importanti, che però la grande esperienza Fincantieri ha permesso di superare. “È come progettare una Formula 1: non è che sia impossibile da costruire, però devi andare dalla casa automobilistica in grado di saperlo fare”. Originale anche la veranda a poppa del ponte principale, che ricorda una conchiglia, protetta da vetri e molto riservata, visto che le scale per salire su questo ponte sono spostate nella parte anteriore a questa zona.

Visto l’interesse suscitato da Private Bay, è stata pensata anche una versione da 140 metri di questo megayacht e, nel frattempo, Bozzo e il suo team stanno lavorando su concept di grandi metrature, un 100 metri per cantieri del Nord Europa, su cui vige ancora riserbo, e un 50 metri per Benetti.

 

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato su THE ONE – Yacht and Design Jade Issue – del 2017

Fincantieri Yachts

1 Mar

Non solo navi da crociera, offshore o militari. Forte dell’eccellenza tecnologica espressa in molti ambiti delle costruzioni navali, Fincantieri nel 2005 ha fondato una nuova business unit che si occupa specificamente della produzione di mega yacht dai 70 metri in su. Si chiama Fincantieri Yachts e ha l’obiettivo di affermarsi come leader tecnologico anche in questo segmento. “Fincantieri ha una storia molto importante di leadership tecnologica, presente in molte delle 7000 navi costruite, con un dna unico che combina eccellenza nella tecnologia, nell’ingegneria e nella capacità produttiva”, afferma Marco Francesco Mazzù, Head of Origination Strategies and Market Development di Fincantieri Yachts, che con passione ci fa entrare nel mondo di questi superyacht.

Il primo a essere costruito è stato Serene, lungo 134 metri e consegnato nel 2011: allora era il nono megayacht più grande del mondo e nel 2012 fu anche giudicato il migliore della sua categoria, vincendo il World Superyacht Award. Nel 2014 è stato varato il secondo, Ocean Victory, ancora più imponente, che con i suoi 140 metri è il più grande yacht mai costruito in Italia e, ad oggi, il nono più grande del mondo.

“Ci siamo posizionati da subito per competere con i migliori del segmento”, spiega Mazzù. “Per fare questo abbiamo messo insieme le competenze specifiche dello yachting, quelle tecnologiche e di gestione del luxury, facendo leva sulle migliori capacità presenti in azienda (per esempio i vari centri di eccellenza Fincantieri), e sul mercato”. La produzione dei MegaYacht avviene nella location storica di Muggiano, vicino a La Spezia, dove nascono tutti i prodotti a più alta complessità, come anche le navi militari più all’avanguardia: le fregate, i sottomarini, le portaerei.

La modalità principale con cui Fincantieri Yachts si propone sul mercato è di creare prodotti unici che rispondano a esigenze e richieste specifiche di armatori, che vogliono vedere realizzati i propri sogni.

A questa modalità, da qualche anno, Fincantieri Yachts ha affiancato uno scrupoloso processo di sviluppo di nuovi concept che fa sì che i megayacht che poi saranno proposti sul mercato non siano voli pindarici di puro design, ma yacht realizzabili, basati su tecnologia avanzata che serve per creare un luxury lifestyle unico e che consente di ottenere prodotti di bellezza assoluta, che vadano oltre la provocazione di design del momento.

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“Nella metodologia di product development, insieme al designer andiamo a immaginare lo stile di vita a bordo dei potenziali clienti. Una volta compreso questo, si sviluppa il concept: una combinazione di linee estetiche e di piano generale che riflette il lifestyle individuato. A questo uniamo un altro tassello fondamentale per noi, cioè gli elementi unici di tecnologia che fanno sempre parte dei nostri progetti”, continua Mazzù.

Il nuovissimo Sundance, per esempio, un 90 metri sviluppato da Steve Gresham (come Exterior Designer) e da Fiona Diamond (come Interior Designer), risponde all’esigenza di clienti che hanno un forte desiderio di vivere gli spazi all’aperto. Ecco dunque nascere una sorta di grande open, con un ampio sun deck all’interno del quale ci sono sia la piscina sia tutti gli altri elementi per dare il migliore livello di esperienza open air all’armatore.

Per clienti che invece amano spostarsi ed esplorare, Fc Swath 75, nato dalla matita di Andrea Vallicelli, è un concept di 75 metri di inizio 2015 ideato anche per chi soffre il mal di mare: ha una struttura tecnologica particolare che permette di avere lo yacht stabile anche in condizione di mare abbastanza mosso e può essere combinato con una propulsione con fuel cell, completamente green, tecnologia che Fincantieri utilizza già da 20 anni su alcuni sottomarini.

Nell’Ottantacinque, sviluppato con Pininfarina, il lifestyle è invece quello di un understated luxury, per persone che non hanno bisogno di dimostrare niente, perché già sono, con il desiderio di godersi la barca con famiglia e amici: ecco quindi la presenza di molti accessi al mare, una profusione di luce naturale e molta flessibilità nell’utilizzo degli spazi interni ed esterni.

“Sempre lo scorso settembre”, aggiunge Mazzù, “con lo studio H2 abbiamo realizzato il nostro entry point – Aura – un concept di 75 metri. L’idea alla base è semplice, ma difficile da realizzare. Dare all’interno di uno spazio limitato una serie di elementi che permettono una vivibilità tipica di barche di taglia superiore, da 80/90 metri. Molto ricca a livello di contenuti, ha un eliporto touch and go, terrazza e palestra panoramica, un’area dell’armatore molto ampia, sei cabine per ospiti, può portare un equipaggio di circa 20 persone e ha un tender garage che può ospitare un Aquariva, o piccoli sottomarini”. Tutti i concept delineano un’idea generale della struttura dello yacht, ma sono poi interamente personalizzabili dagli armatori, anche grazie alla capacità unica del team di ingegneria e dei partner di cui si avvale Fincantieri Yachts.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato su THE ONE – Yacht and Design – Silver issue

 

Creative Minds: Luca Dini

7 Feb

Un’icona può essere rinnovata

La firma di Luca Dini ha segnato lo stile di moltissimi yacht, avendo lavorato con i cantieri più famosi al mondo, come Benetti, Mondo Marine, Tecnomar, Admiral, Isa, Mariotti e Cantieri di Pisa. A 50 anni di età e dopo oltre 25 di attività in tutto il mondo, il designer fiorentino che lasciato il segno nel mondo nautico è ora alle prese con una sfida molto stimolante, ma di grande responsabilità: rinnovare la storica linea Akhir dei Cantieri di Pisa, che ha cambiato il corso della nautica da diporto. Inventata negli Anni 70 dal professore Pierluigi Spadolini, di cui Luca Dini è stato allievo, “è stata una barca rivoluzionaria, una specie di Stargate. Da quel momento in poi lo yacht design è diventato una vera realtà e ancora oggi vediamo molte cose riprese da essa”, dice Dini, emozionato nel ricordare quando, da ragazzino, appena entrato nello studio di Spadolini, la vide nascere. dini_pagina_1dini_pagina_2

Oggi che lo studio Luca Dini Design, nato a Firenze nel 1996, non si occupa più solo di progetti nautici, ma anche architettonici, ville residenziali e private, oltre che di aeroplani, lavorare su un’imbarcazione di questo tipo dà al designer un’ispirazione inedita, che sintetizza così: “Un’icona può essere rinnovata”. Perché qui non si tratta di disegnare qualcosa da zero, pensando a un’idea che sia unica, bensì di ridisegnare un modello che è già stato unico e ha segnato la storia del design nautico. Il che è decisamente più impegnativo.

Ma Dini ha una sensibilità particolare e un entusiasmo che lo contraddistinguono e la sua lunga esperienza in Italia e all’estero hanno reso questa impresa possibile. “La prima cosa che abbiamo fatto è stata mantenere gli stilemi che formano l’identità di questa linea, che però abbiamo aggiornato al 2020. La prova più importante che abbiamo centrato è che la barca fosse ancora riconoscibile da lontano, sua caratteristica peculiare. L’obiettivo era quello che hanno fatto la Mini, la 500, o la Porsche. Una Porsche degli Anni 70 o di oggi, è sempre una Porsche, tutti la riconoscono. Così abbiamo fatto noi: la linea esterna è quella su cui ci siamo maggiormente concentrati”.

Ma sul nuovo 42 metri dei Cantieri di Pisa sono state introdotte anche grandi novità: l’utilizzo dell’alluminio, in un cantiere che finora aveva lavorato solo con legno o vetroresina. Lo yacht è un semidislocante, non più planante, e per la prima volta il Cantiere avrà uno yacht con un secondo salone al ponte superiore e un ponte principale full beam a prua, dove è stata posizionata la cabina dell’armatore, con balconi ribaltabili, che quindi non si trova più sul lower deck, come in passato.

pub-to7cover_sLo stile Luca Dini Design si riconosce dalla costante ricerca, dal perfezionismo e dal gusto sempre sorprendente ma ricercato che lo caratterizzano. Così anche negli interni del nuovo Akhir, che saranno interamente personalizzati dall’armatore, ha inserito un particolare degno di nota: in onore alla moglie di Spadolini, Gianna Fagnoni, che inventò il teak sabbiato per i Cantieri di Pisa, un must per decine e decine di modelli, ha mantenuto questo materiale storico, cambiandogli però mood: “Abbiamo pensato renderlo più contemporaneo scegliendo un disegno con ispirazione giapponese, molto asciutto e lineare, tipico delle architetture del Sol levante, Paese dove mi sono recato molte volte negli ultimi anni e da cui ho tratto una forte influenza, forse anche per il contrasto con l’opulenza del rinascimento fiorentino in cui sono costantemente immerso”, conclude Dini.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato su THE ONE – Yacht and Design di luglio 2016.

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