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Vacheron Constantin: Vermeer tascabile

16 Feb

Per i grandi e facoltosi collezionisti il limite esiste solo nella loro fantasia. Possono avere tutto: serie limitate, pezzi unici. Ma possedere qualcosa che gli altri non hanno non è ancora abbastanza. La vera emozione allora consiste nel farsi realizzare il proprio orologio esattamente come lo si è immaginato, da qualcuno in grado di trasformare la loro visione in realtà. Chiamarlo orologio risulta dunque riduttivo per opere d’arte di tale portata e costo (in milioni di euro), che sono oggi il corrispettivo di un quadro su commissione ai grandi maestri del Rinascimento. Che eleva su un piano ancora superiore determinati collezionisti.  

Come quello che ha commissionato a Vacheron Constantin Les Cabinotiers sonnerie Westminster – Omaggio a Johannes Vermeer, un orologio da tasca che include alcune delle complicazioni più raffinate dell’orologeria: Grande e Petite Sonnerie, la ripetizione minuti e il Tourbillon. Impreziosite dalla riproduzione a smalto di un dipinto realizzato dalle sapienti mani di Anita Porchet, la sopraffina smaltatrice elvetica, garanzia di eccellenza.

Per il brand è un impegno in termini di tempo e denaro notevole e in pochissimi hanno le competenze per farlo. Ma Vacheron Constantin ha un dipartimento apposito: Les Cabinotiers, il team che ricalca le orme dei maestri orologiai ginevrini del Settecento a cui i dignitari delle corti europee commissionavano i loro pezzi di pregio e che avevano i cabinet, il nome dei loro studi, ai piani alti dei palazzi di Ginevra, per avere maggiore luce.

Ci sono voluti otto anni per mettere a punto questo capolavoro in ogni suo aspetto tecnico e artistico. I maestri orologiai hanno creato un nuovo movimento a carica manuale, che sarà usato solo per questo esemplare: il calibro 3671, con regolatore a tourbillon (visibile sul lato fondello), ripetizione minuti e Grande e Petite Sonnerie a carillon Westminster, una delle suonerie più complicate da realizzare, che prende il nome dalla campana del Big Ben di Londra, di cui riproduce la melodia prodotta da 5 martelletti che battono su altrettanti gong. Un doppio bariletto ne aumenta l’autonomia, di circa 80 ore per le indicazioni orarie e circa 16 ore in modalità Grande Sonnerie.

Il cuore estetico di questo pezzo unico è il coperchio del fondello, sul quale Anita Porchet ha dipinto una miniatura de La ragazza con l’orecchino di perla del pittore olandese Johannes Vermeer (1665), secondo la tecnica antica chiamata “smalti di Ginevra”, che consiste nell’applicare i colori su uno strato di smalto bianco, che rappresenta la sua tela. Trattandosi di una miniatura di 98 mm di diametro, l’artista ha usato il microscopio binoculare per realizzarne tutti i dettagli e i chiaroscuri e al termine di ogni fase ha stabilizzato il dipinto con la cottura in forno, senza possibilità di ritocchi. Solo per il turbante, sono state necessarie due settimane di lavorazione, mentre per lo sfondo nero, colore che tende a ossidarsi, sette tonalità di nero. In totale, Porchet ha impiegato due anni di lavorazione per portarlo a termine.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera – Dorso Orologi di dicembre 2021

Tudor e gli All Blacks: nati per osare

16 Feb

Proviamo a immedesimarci: la palla si può passare solo indietro, quindi l’unico modo per avanzare e andare a fare meta nel rugby è brandire la palla in mano e correre, correre, cercando di non farsi placcare. Ottanta minuti di gioco effettivi di pura adrenalina, in cui l’infortunio è sempre dietro l’angolo. Occorrono passione, muscoli, tattica. Ma soprattutto coraggio. È nato per osare Beauden Barrett, vero talento del team più forte di tutti i tempi, la nazionale neozelandese degli All Blacks, che ha giocato contro l’Italia il 6 novembre scorso. “Nelle partite e in allenamento spesso è più facile fare la cosa sicura ed essere prudenti, ma se vuoi migliorare e metterti alla prova devi spingerti oltre i tuoi limiti”.

Il trentenne, miglior giocatore al mondo nel 2016 e 2017, insieme a tutta la nazionale è ambasciatore di Tudor, con cui condivide lo spirito autentico legato alle proprie radici e la robustezza. Gli orologi del marchio fondato da Hans Wildorf sono infatti progettati per resistere nelle situazioni più estreme e sono stati al polso degli sportivi più avventurosi. “Anche io mi sto allenando in tutti i tipi di condizioni, costretto ad evolvermi, adattarmi e a giocare sotto pressione”, aggiunge. Piena espressione del motto Tudor “Born to dare”, che gli All Blacks incarnano alla perfezione.

Dall’anno della sua fondazione, infatti, il 1884, la nazionale kiwi ha vinto più di tre partite su quattro, un’enormità. E il suo regista, Barrett, è una leggenda, ma anche parte di una squadra che è più leggendaria di lui. Infatti mantiene un understatement tipico di chi si sente parte di un tutto che ha un valore superiore. Rappresentato dalla divisa nera con la felce argentata: “sono grato di aver avuto l’opportunità di indossare questa maglia più di 100 volte. Non sappiamo mai quando sarà l’ultima, nel frattempo si tratta di onorarla e di valorizzarne l’eredità ogni volta che possiamo”. Ma come si diventa capofila del team più leggendario al mondo? “Richiede tempo. Crescita personale e sviluppo negli anni. È importante imparare dai leader del passato e portare il tuo stile di leadership. Essere autentici è tutto: le persone ti seguiranno se sei genuino e dai l’esempio”.

Così come il marchio Tudor è innovativo, ma legato alla tradizione, gli All Blacks sono una nazionale che si rinnova di continuo, ma custode di un passato glorioso, inscindibilmente legato ai Maori, la cui lingua e identità vengono mantenuti vivi con la Haka, la celebre danza con cui si apre ogni partita. “Fa parte di chi siamo e di chi rappresentiamo. Si tratta di connetterci come una squadra prima della battaglia, per sentire la wairua (il proprio spirito senziente, ndr) e guardare i nostri avversari negli occhi”, conclude Barrett. Che incarna l’essenza del vero campione.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera – Dorso Orologi di dicembre 2021

Richard Mille: l’ultima sfida dei samurai

16 Feb

Quando alta orologeria e arte si incontrano nascono modelli destinati a fare scalpore. È questo il caso dell’ultimo RM 47 Tourbillon, uno straordinario esempio di abilità nell’incisione e nella smaltatura che rendono l’armatura del samurai che veste il movimento una scultura tridimensionale, la cui bellezza cattura l’attenzione anche di un occhio non esperto. È l’ultima creazione di Richard Mille, marchio conosciuto principalmente per la tecnologia e il carattere audace dei suoi modelli, ma che già da qualche anno rende omaggio alla tradizione orologiera utilizzando le tecniche del passato, unitamente a quelle del presente, per creare opere uniche. Nel 2014 per esempio era nato l’RM 26-02 Tourbillon Evil Eye, con un occhio diabolico sul quadrante circondato da fiamme smaltate, mentre nel 2019 l’RM 57-03 Tourbillon Sapphire Dragon, con un superbo dragone realizzato in un mix di zaffiro e oro.

Questo è invece l’anno dell’RM 47 Tourbillon, un tributo all’antica arte giapponese e alla cultura dei samurai, realizzato in 75 esemplari, la cui ideazione e creazione ha richiesto oltre tre anni di meticoloso lavoro manuale. L’armatura del samurai è incisa in oro giallo, materiale caro alla tradizione nipponica e poi smaltata in alcune sue parti per darle la tridimensionalità necessaria a esaltarne l’espressività. Un lavoro svolto da una coppia di artigiani che hanno il loro atelier proprio alle pendici del Giura, in Svizzera: il maestro incisore Pierre-Alain Lozeron e la smaltatrice Valérie Lozeron. “Per questo progetto, siamo stati contattati nel 2019”, racconta l’incisore. “Si trattava di creare un’armatura da samurai completamente integrata nel movimento con dispositivo tourbillon.

L’idea iniziale è sembrata subito una missione impossibile. I primi campioni li abbiamo realizzati con mastice da modellazione, seguiti da prototipi in ottone. E dopo molti tentativi siamo arrivati al progetto definitivo”. Che comprende molti dettagli appartenenti al mondo dei samurai: l’elmo protettivo, il kabuto, con la sua smorfia per spaventare gli avversari, le due spade con le lame rivolte verso l’alto, le due piume di falco incrociate a ore 6, sopra al tourbillon, che rappresentano lo stemma della famiglia Asano, emblema dello spirito bushido, il codice di condotta dei guerrieri-samurai diventato famoso in tutto il mondo attraverso la letteratura.

“Ho avuto bisogno di 20 scalpelli diversi per sviluppare le strutture e le trame dell’armatura. In totale, sono state necessarie 16 ore di incisione per creare gli undici elementi che danno vita a questa decorazione”, aggiunge Pierre-Alain. “Ma è stato quando è stato colorato con smalto traslucido che lo straordinario lavoro di incisione ha davvero preso vita”, sottolinea la smaltatrice. Che con vari tentativi ha dovuto scegliere quali parti colorare e quali lasciare in oro. “Aggiungendo al tempo di incisione le nove ore per pezzo necessarie per la verniciatura, sono state necessarie più di 24 ore in totale per una singola armatura. Un compito monumentale”. Armatura che riveste fronte e retro il movimento RM 47, un calibro di manifattura a carica manuale con un’autonomia fino a 72 ore, con platina e ponti scheletrati rifiniti a mano realizzati in titanio grado 5 micropallinato rivestito in Pvd grigio.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera – Dorso Orologi di maggio 2022

Montblanc punta all’Everest. Senza ossigeno

16 Feb

C’è un detto che afferma: “Se un uomo dice di non aver paura della morte, o sta mentendo, o è un Gurkha”. Ovvero quei soldati di nazionalità nepalese arruolati nell’Esercito britannico che hanno una grande reputazione di forza e coraggio. Qualità che non mancano certo a Nirmal Purja, l’alpinista nepalese (naturalizzato britannico) di 38 anni protagonista del documentario 14 vette: scalate ai limiti del possibile (visibile su Netflix) e del libro Oltre il possibile (Ed. Solferino), che è diventato gurkha a 18 anni ed è poi stato il primo a entrare nel reparto speciale Special Boat Service, una delle unità militari d’élite del Regno Unito. Prima di dedicare la vita alla sua vera passione: l’alpinismo. Nel quale mostra le stesse doti di audacia e forza interiore che non si affievoliscono di fronte a nulla. Neanche a un’impresa da tutti considerata impossibile: scalare le 14 vette più alte del mondo in meno di sette mesi, quando prima di lui il record era di poco meno di 8 anni. Montagne con una cosa in comune: superano tutte gli 8mila metri, sono dunque nella cosiddetta “zona della morte” dove, a causa della scarsità di ossigeno e delle temperature glaciali, la vita umana non può resistere oltre un ridotto limite di tempo. Per molti, più che un progetto, una spacconata destinata a fallire. E invece Nimsdai (come viene anche chiamato) non solo ci è riuscito, ma ci ha messo sei mesi e sei giorni.

Dietro a un’apparenza da orgoglioso “self made man” si cela un’anima profonda: Nirmal ha compiuto questa impresa per “rappresentare il Nepal e il contributo che i nepalesi hanno dato all’alpinismo mondiale”, scrive sul suo profilo Instagram. Un orgoglio per gli sherpa, uomini “sempre in prima linea per rendere l’impossibile, possibile. Ma anche per ispirare ognuno a sognare in grande, ad avere grandi obiettivi nella vita e impegnarsi per raggiungerli, senza preoccuparsi di quale sia il background”. Le sue origini infatti sono umili e l’infanzia dura. Ma mentre è arruolato, scopre di avere delle doti fisiche speciali, una capacità di acclimatarsi ad elevate altitudini superiore a tanti altri alpinisti, dovuta a una migliore distribuzione di ossigeno alle cellule del corpo, cervello incluso, che lo rende più performante e lucido nelle decisioni proprio in quella zona della morte dove molti iniziano ad avere allucinazioni e problemi fisici.

Le 14 vette che lo hanno reso una star sono state scalate con l’aiuto di ossigeno, ma una delle sue prossime avventure, programmata per la fine di maggio, sarà quella di ascendere l’Everest senza ossigeno supplementare, come nell’alpinismo classico. Per questo progetto, Montblanc – di cui Nirmal è divenuto ambasciatore – ha realizzato il 1858 Geosphere Chronograph 0 Oxygen, crono con funzione di ora universale dal nuovissimo movimento MB 29.27. Ma non è la sola novità, perché dall’interno dell’orologio è stato tolto l’ossigeno per evitare l’appannamento dovuto ai drastici sbalzi di temperatura e prevenire l’ossidazione. Come? Il movimento viene incassato all’interno di una sorta di teca concettualmente simile nella forma a una sabbiatrice da banco, una struttura in cui l’operatore agisce infilando le mani in due aperture con guanti integrati, osservando ciò che fa attraverso una lastra di cristallo superiore. L’ossigeno viene sostituito con l’azoto, un gas non inquinante dal momento che l’aria che respiriamo ne è composta per il 78%. Il movimento dello 0 Oxygen adotta poi lubrificanti speciali adatti a mantenere le proprie caratteristiche anche a temperature estreme di -50° C. Il modello monta inoltre guarnizioni particolari non solo tra la cassa, il fondello e il cristallo, ma nella corona e nei pulsanti cronografici. Per non far uscire l’azoto (o entrare l’ossigeno) una volta estratta o azionati.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera – Dorso Orologi di maggio 2022

Hermès, orologi per viaggiare con la fantasia

17 Giu

Non lavorate con i designer di orologi. Quando nel 1978 Jean-Louis Dumas fondò a Bienne, in Svizzera, La Montre Hermès, aveva una visione ben chiara. Una frase pronunciata in tono umoristico, che significava che gli altri brand svolgevano egregiamente il loro mestiere da secoli e che se Hermès entrava in questo settore era per fare qualcosa di diverso, portando la propria firma, legata al mondo della fantasia e dell’immaginazione, in grado di far sognare i propri estimatori. Puntando comunque su una solida tecnica, altrettanto importante, con movimenti di manifattura che negli anni si sarebbero raffinati, come di fatto è avvenuto in quasi 45 anni di storia. Le complicazioni in casa Hermès sono dunque pensate al servizio della leggerezza e della poesia, sono il mezzo per comunicare un’idea, e non un obiettivo fine a se stesso. Così è stato per alcuni modelli recenti, come Arceau L’heure de la Lune del 2019, che ha rivoluzionato il modo di concepire le fasi lunari, e così è per l’ultimo in ordine di tempo, l’Arceau Le Temps Voyageur, l’interpretazione del marchio della funzione “ore del mondo”. Che prende vita dal polivalente calibro automatico di manifattura H1837 realizzato in collaborazione con Vaucher sul quale, tramite un sofisticato modulo aggiuntivo, è stata allestita una complicazione perfettamente in linea con la filosofia del brand.

Di orologi world timer sul mercato ne esistono infatti già tanti. Questo però sortisce un effetto sorpresa perché non è il classico anello delle città a girare, bensì il piccolo quadrante di ore e minuti dedicato all’ora locale che, come un satellite, orbita al centro del disco perimetrale, spostandosi di un’ora avanti a ogni pressione del pulsante a ore nove in modo da indicare con la freccetta rossa la città di riferimento del fuso orario. Oltre a chi indossa l’orologio, dunque, anche il tempo stesso è il viaggiatore, da cui il nome del modello, che nel concept iniziale del team creativo diretto da Philippe Delhotal era rivolto sia a chi prende aerei tutte le settimane, sia a chi un viaggio lo compie anche leggendo un libro, o sognando con la fantasia. Per evocare questo mondo surreale, la mappa finemente decorata sul quadrante, ispirata a un’installazione di Jérôme Colliard, ha mari e continenti fittizi con nomi legati al mondo equestre, caro alla maison. Un tocco di follia che rende l’Arceau Le Temps Voyageur ancora più originale. A ore 12 inoltre, una finestrella indica l’ora di casa, parte di quel modulo di 122 componenti, riuniti in soli 4,4 mm di spessore, che un meticoloso lavoro di armonizzazione durato tre anni ha racchiuso in una cassa in platino da 41 mm o in acciaio da 38 mm. Il cui design è ancora quello originario creato da Henri d’Origny nel 1978, con le sue anse asimmetriche.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera – Dorso Orologi di maggio 2022

Anita Porchet, la regina degli smalti

10 Feb

Un atelier con vista sulla natura di Corcelles-le-Jorat, a poca distanza dalla culla dell’orologeria svizzera di grande precisione. Un tavolo da lavoro gremito da una miriade di barattolini colorati, il cui contenuto, nelle mani sapienti della smaltatrice più rinomata dell’industria del tempo, diventa materiale prezioso che rende unici orologi già raffinati di per sé. È questo il luogo magico in cui Anita Porchet, una donna dalla voce dolce e pacata, attraverso il fuoco trasforma i suoi materiali tradizionali in meravigliosi quadranti artistici, con infinita concentrazione, pazienza e precisione. Una maestria tipica di chi ha imparato questo mestiere da bambina, che l’ha portata a vincere una serie infinita di premi ed a collaborare con le più grandi manifatture di alta orologeria. L’ultima in ordine di tempo, Audemars Piguet per la quale ha realizzato una trilogia di quadranti in smalto paillonnée “Grand Feu” per il Grande Sonnerie Carillon Supersonnerie della collezione Code 11.59 by Audemars Piguet. Un supercomplicato con Grande Soneria, una delle complicazioni più raffinate della storia dell’alta orologeria, che solo un ristretto gruppo di orologiai è in grado di realizzare, assemblare e regolare. Che qui si accompagna alla Supersonnerie, innovativa tecnologia brevettata dalla manifattura all’insegna di una performance acustica ancor più sopraffina, ed alla funzione carillon, riassunti in una complessa meccanica da ben 489 componenti.

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Proprio in omaggio ai Grande Sonnerie realizzati nella Vallée de Joux tra il XVII e il XIX secolo, che erano in smalto, la marca ha intrapreso una collaborazione con la smaltatrice svizzera, che ha decorato ogni quadrante con antichi lustrini d’oro, secondo la tecnica paillonné. “Ho iniziato a lavorare con Audemars Piguet un anno fa”, raccontata l’artista. “Di solito i brand vengono da me con delle idee ben precise. Questa volta è stato diverso. Desideravo lavorare con la tecnica paillonné, non l’avevo mai fatto prima. Hanno compreso pienamente il mio mestiere e mi hanno dato completa libertà. È davvero insieme che abbiamo creato questi pezzi unici”. Il paillonné è un’arte unica nel suo genere. Anita Porchet ha tagliato a mano foglie d’oro risalenti a oltre un secolo fa, attraverso tecniche e strumenti antichi, per dare la forma desiderata ai lustrini (paillon), poi meticolosamente incorporati sul disco smaltato del quadrante, prima di passare alla fusione nel forno. “I tre quadranti usano paillons con una struttura geometrica. Linee rette, piccoli anelli. Lavoro con gli stessi strumenti che si usavano il secolo scorso. Ho a cuore il concetto di lavorare così come mi è stato insegnato. Per me la perfezione non fa la bellezza, è piuttosto l’opposto. Anche se ricerco la perfezione, e so che la cercherò per sempre, questa simmetria imperfetta è sinonimo di vita”. Per trovare il colore desiderato che mettesse in evidenza i paillon d’oro, ha combinato cinque colori diversi. “È un processo lungo. Non si tratta solo del tempo impiegato per la creazione, ma anche del tempo di riflessione. Posiziono il materiale, lo rimuovo, lo sostituisco. La creazione del terzo quadrante, per esempio, è stata più lunga e laboriosa, perché ho utilizzato la tecnica del cloisonné, oltre al paillonné. Non a caso ho avuto un problema tecnico nella realizzazione proprio dell’ultimo pezzo della trilogia, ma sono molto contenta del risultato”. Tre orologi unici con una straordinaria unione di innovazione e tradizione, ai quali si aggiungeranno altri due esemplari per i quali i clienti potranno richiedere un quadrante personalizzato, sempre realizzato nello studio di Anita Porchet.

Audemars Piguet

Fondata nel 1875 a Le Brassus, Audemars Piguet è la più antica manifattura di alta orologeria tuttora esistente ad essere ancora guidata dalle famiglie fondatrici, Audemars e Piguet. Meccanismi con suoneria, cronografi e complicazioni astronomiche erano e sono il suo fiore all’occhiello. Legata alle sue origini artigianali, conserva savoir-faire rari ed antichissimi, che si impegna a tramandare attraverso orologi unici, sovente impreziositi da un tocco artistico.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato su Il Corriere della Sera – Orologi del dicembre 2020

Il crono cinema di Nolan

28 Gen

Se c’è un regista che ha fatto del tempo un elemento cardine della sua cinematografia, quello è certamente Christopher Nolan, visionario autore di film che hanno segnato la storia del cinema, come Memento, Inception e Interstellar, nonché la trilogia del Cavaliere Oscuro, alias Batman. Un regista che è andato oltre gli avanti e indietro narrativi, tipici del cinema post moderno, come accade per esempio in Pulp Fiction di Tarantino, in cui lo spettatore deve ricostruire il filo narrativo. Nelle sue pellicole i piani temporali si intrecciano: in Memento partiamo dalla fine e ricostruiamo gli eventi a ritroso. In altri si viaggia avanti e indietro in un tempo che diventa elemento fluido, in cui lo spettatore a volte perde l’orientamento, anche per volontà del regista stesso. Come succede nel suo ultimo enigmatico film Tenet, che Andrea Chimento, ideatore e direttore responsabile del sito Longtake.it, docente di Istituzioni di Storia del Cinema presso l’Università Cattolica di Milano, ci aiuta a decifrare: “Tenet è l’undicesimo film di Nolan. Undici è un numero palindromo, letto in senso inverso mantiene immutato il significato. Anche Tenet è un titolo palindromo. È un film che va avanti nel tempo, poi a un certo punto torna indietro. Ci si smarrisce facilmente, ma Nolan ci invita anche un po’ a perderci. C’è una frase nel film in cui si dice ‘non cercare di comprenderlo. Vivilo, sentilo (feel it)’”. Ed è in questo lungometraggio che la classica battuta ‘sincronizziamo gli orologi’ assume un significato potenziato. Qui i segnatempo hanno infatti un ruolo narrativo: circa mezzora prima della fine i personaggi vanno a sincronizzarli ed è come se sincronizzassero le loro menti. In un caos temporale in cui si risale solo attraverso l’amore, l’altro grande tema del cinema di Nolan, sotteso in quasi tutti i suoi film, anche quelli di fantascienza. Gli orologi attraverso cui ricostruiamo meglio la trama sono modelli realizzati da Hamilton. Non orologi preesistenti che appaiono nelle scene, bensì segnatempo creati apposta all’interno della divisione di Swatch Group dedicata al mondo del cinema, in un processo di sviluppo tecnico, test di qualità e produzione durato quasi due anni.

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Quello tra il brand e Hollywood è un legame consolidato: dal lontano 1932, quando il primo orologio compare nel grande classico Shanghai Express, con Marlene Dietrich, sono passati oltre 80 anni, con più di 500 apparizioni (tra cui 2001 Odissea nello spazio, The Martian, Independence day – Rigenerazione e Man in Black). Nel corso del tempo si è passati da un semplice product placement a un vero e proprio ruolo all’interno della storia narrata. Anche grazie all’impegno del marchio che, conservando il suo spirito americano, ma con la precisione svizzera, collabora fianco a fianco degli scenografi e dei registi per realizzare orologi unici. Come nel caso di Christopher Nolan e del suo capo scenografo Nathan Crowley, con i quali Hamilton aveva già collaborato su un precedente film, Interstellar (2014), che rappresenta il punto di svolta per il ruolo dei segnatempo nel cinema. È qui che per la prima volta gli orologi hanno un significato narrativo all’interno della trama. I due protagonisti, l’astronauta-padre Matthew McConaughey e la figlia dodicenne, Murph, promessa della matematica, comunicano attraverso due orologi identici, con cui il padre, dallo spazio, manda un messaggio in morse attraverso la lancetta dei secondi alla figlia, sulla Terra. E se “Nolan è il regista più importante nell’ambito del cinema contemporaneo per quanto riguarda la modellazione temporale”, come sottolinea Andrea Chimento, attraverso Tenet e il suo regista Nolan, Hamilton consolida il suo ruolo di “the movie brand”.

Christopher Nolan

Nato a Londra nel 1970, Christopher Nolan è un regista, sceneggiatore e produttore britannico ricercato, uno dei più apprezzati da critica e pubblico. Il suo primo film, Following, è del 1998, ma è con Memento, nel 2000, a budget molto basso ma rilievo molto alto, che la sua carriera si impenna. Arriva a dirigere Al Pacino nel successivo Insomnia e, tre anni più tardi, una trilogia importante, quella del Cavaliere Oscuro, che lo porterà ad avere incassi da record. Ama temi psicologici come la natura della memoria, l’identità personale, il confine tra la realtà e la sua percezione individuale, e lo fa attraverso sceneggiature studiate per anni e una narrazione non lineare, in cui le alternanze temporali sono sempre centrali, come in Inception, Interstellar e nell’ultimo nato, Tenet.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato su Il Corriere della Sera – Orologi del dicembre 2020

Chopard e le miniere che brillano di giustizia

28 Gen

Un minatore che lavora ancora con tecniche di estrazione mineraria alluvionale, con il classico setaccio in mano per vagliare la sabbia aurifera. Un’immagine d’inizio Novecento che ricorda i primi estrattori del Klondike, quelli della famosa corsa all’oro di cui hanno raccontato scrittori e registi, tra cui Charlie Chaplin nel film La febbre dell’oro, capolavoro di poesia in cui un nullatenente che non ha altro cibo se non una zuppa fatta con le sue stesse scarpe, diventa milionario proprio grazie all’oro. Ma è proprio così che lavorano ancora oggi alcuni minatori artigianali in Colombia che Chopard, per una scelta etica, ha deciso di sostenere acquistandone il 100% della produzione. Parliamo della regione di El Chocò, una delle più ricche d’oro, ma anche delle più povere del Paese, in cui la manodopera, al 46% femminile, si avvale di tecniche di raccolta manuale e metodi privi di utilizzo di mercurio, a salvaguardia della biodiversità del territorio. Un metodo certamente non competitivo, ma ecosostenibile, che il brand sostenta ormai da anni e di cui questo è solo l’ultimo tassello in ordine di tempo. Proprio nel 2020 la manifattura svizzera ha stretto una nuova collaborazione con la Swiss Better Gold Association, grazie alla quale acquisterà l’oro dei Barequeros colombiani, i minatori d’oro artigianali, ai quali viene assicurato un prezzo di vendita competitivo e, in più, un premio da reinvestire nelle loro comunità, per migliorare condizioni di vita e di lavoro. Stessa cosa che accade già con altri piccole realtà della Bolivia, per promuovere i minatori d’oro responsabili che lavorano su piccola scala. In questo campo, Chopard è il primo produttore di gioielli e orologi di lusso al mondo ad aiutare le comunità minerarie a ottenere la certificazione Fairmined, che garantisce che l’oro sia estratto in maniera etica, rispettando i lavoratori e l’ambiente, e a fornire loro formazione, assistenza sociale e ambientale.

Una scelta possibile perché Chopard è una delle pochissime realtà che, nella manifattura di Ginevra, ha una fonderia interna. Al piano interrato si trova infatti questo luogo simile al laboratorio di un alchimista dove Paulo, l’artigiano specializzato nella fusione che lavora in azienda da quasi vent’anni, può creare le sfumature di colore desiderate. Voluta da Karl Scheufele, padre di Caroline e Karl Friedrich Scheufele, gli attuali Co-presidenti di Chopard, la fonderia fu creata nel 1978 per integrare e verticalizzare la produzione, a partire dalla fusione dell’oro. Questo ha consentito inoltre di controllare la filiera di approvvigionamento della materia prima, per anni difficilmente tracciabile. Una materia prima che, come le pietre preziose, è spesso legata a criminalità, illegalità e sfruttamento. Elemento che strideva con l’etica e la responsabilità della famiglia Scheufele, che da sette anni ha deciso di muoversi a passo deciso verso un lusso sostenibile.

Si chiama infatti The Journey to Sustainable Luxury il progetto pluriennale intrapreso nel 2013, in collaborazione con Eco-Age e la sua direttrice creativa Livia Firth, con i primi gioielli della Green Carpet Collection realizzati con oro fairmined e diamanti che rispettano la condotta del Responsible Jewellery Council, indossati la prima volta da una sfavillante Marion Cotillard sul red carpet di Cannes. Dal 2014 anche la Palma d’Oro di Cannes, by Chopard, è realizzata in oro fairmined, mentre nel 2014 a Basilea è stato presentato il primo segnatempo d’Alta Orologeria in oro responsabile al mondo, il L.U.C. Tourbillon QF Fairmined. Un anno più tardi, attraverso la partnership con la raffineria d’oro svizzera PX Précinox Sa, anche l’esportazione e la raffinazione dell’oro vengono sottoposte a rigidi controlli e hanno piena tracciabilità. Si arriva poi al 2018, l’anno del traguardo più importante: da allora tutta la filiera Chopard è al 100% in oro etico. “La sostenibilità è un obiettivo in movimento, è un viaggio che non finisce mai”, afferma Caroline Scheufele, co-presidente e direttrice artistica della manifattura. “Oggi più che mai deve rappresentare una priorità per proteggere le persone sul campo che, con il loro lavoro, rendono possibile la nostra attività”. Un approccio da pionieri che aiuta le comunità più povere del mondo e allo stesso tempo conferisce alla Maison una significativa differenziazione rispetto ai competitor. La coscienza ha un prezzo e Chopard è felice di pagarlo.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato su Il Corriere della Sera – Orologi del dicembre 2020

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