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Creative Minds: Tiziana Vercellesi

11 Lug

“Getting the excellence tailored on the Client’s wishes learning the ‘Eudaimonia’, the Aristoteles’s concept of happiness”.

 

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Gli interni che portano la firma di Tiziana Vercellesi sono preziose realizzazioni che, sotto un unico cappello concettuale, riuniscono pezzi d’eccellenza disegnati in modo esclusivo e creati sulla misura dei desideri del cliente. Ogni progetto è una sfida, uno sforzo che spinge l’architetto e tutto il team chiamato a lavorare con lei oltre i consueti confini, sfruttando al massimo le abilità di ciascuno. Con risultati sorprendenti. “La conoscenza dei materiali e il processo delle loro lavorazioni permette di estrarne l’anima, nella convinzione che questo sia visibile e sentito a opera conclusa.

Piemontese di origine, ha trascorso i primi 20 anni professionali tra Milano e Como dedicandosi ad abitazioni di lusso e ad alcuni yacht, amando particolarmente questi ultimi. Dal 2006, è in Toscana chiamata dal cantiere Sanlorenzo a Viareggio dove per 5 anni lavora come in-house architect, ideando gli interni di 19 barche alle quali in seguito si uniscono altre, dietro incarichi diretti di armatori. Oggi nell’ufficio a Marina di Carrara si dedica di nuovo ai due ambiti originari, gli yacht e le abitazioni private, spesso degli stessi clienti.

Nel lavoro, sono irrinunciabili in egual misura qualità, funzione ed estetica. Seleziono personalmente i materiali, tutto è disegnato su misura, collaboro al controllo delle costruzioni e aggiungo esclusività grazie all’esperienza e alla rete di abili artigiani e artisti capaci di realizzare pezzi speciali e unici. L’intento è quello di realizzare luoghi dove stare bene, sentirsi liberi, regalare un po’ di emozione ed essere felici”.

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Filosofia applicata alla perfezione a Scorpion, il 46 metri dislocante acciaio e alluminio varato nel 2015 da Sanlorenzo, frutto del lavoro a stretto contatto con l’armatore, dallo stile definito Fusion Art Deco, che indica la presenza di elementi contemporanei stilisticamente armonizzati con mobili Art Deco, con i motivi di William Morris e altri artisti dell’inizio del ventesimo secolo. Tutto l’arredo è realizzato in Italia ad esclusione dei mosaici di un artista moscovita. Se si osservano i dettagli, si notano “mobili complessi da realizzare, con curve e controcurve e impiallacciature preziose, materiali e finiture non comuni, inserti in metallo fatti da bronzisti esperti”.

Ogni ponte ruota intorno a temi voluti dall’armatore: sul lower deck troviamo le città Parigi, Londra, New York e Mosca, sul ponte principale, il verde della foresta e i soggetti della natura, sull’upper deck entriamo infine nel mondo marino, animato da pesci, tartarughe, meduse e da un vero acquario. Tutti esplicitati negli elementi decorativi: bassorilievi a foglia d’argento, foto artistiche retroilluminate, metalli tagliati a laser, madreperle, agate e ametiste si alternano e si fondono allo scopo. “Al centro della scala si staglia una scultura di vetro dall’elevata complessità realizzativa, desiderio dell’armatore che voleva come un grattacielo che dal basso verso l’alto portasse al mondo marino, posto in alto come sentimento di libertà. Ho imparato lavorando con lui l’aspetto aristotelico di Eudaimonia, di Felicità come purpose to achieve performing one’s function well.” Concetti che si ritroveranno anche nel progetto futuro dell’architetto: “uno yacht di 60 metri dove la personalizzazione di ogni elemento, anche se di stile diverso, sarà ugualmente forte e la ricerca della “Felicità” sottolineata dalla presenza di una zona benessere molto grande, con spa, palestra, attrezzature per il trattamento del corpo”.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato su THE ONE – Yacht and Design di maggio 2016.

Creative minds: Enrico Gobbi, leader di Team For Design

21 Giu

Ciò che rende un progetto vincente è il raggiungimento di una armonia complessiva di tutte le forme, la perfetta proporzione. Solo partendo da una matita e un foglio bianco si può conseguire questo obiettivo.”

Enrico Gobbi è la mente creativa di Team for Design e ogni sua creazione nasce con un tratto di matita sul foglio bianco: “Non vogliamo che l’aspetto informatico, fondamentale per la stesura finale del progetto, sovrasti quella che è la creatività massima di un disegno fatto a mano, che vince sempre”, ci racconta con grande decisione e verve. Nato a Venezia, dove l’acqua e la bellezza fanno parte del panorama, cresce respirando aria di mare ed è da subito attratto dalle imbarcazioni, anche se inizialmente è l’architettura civile a interessarlo di più. “A metà del corso all’Università di Venezia, ho cominciato a documentarmi sul mercato nautico, finché alla fine degli studi mi sono ritrovato totalmente innamorato di questo mondo. Non a caso mi sono laureato con una tesi su una nave e da lì è cominciato tutto”. Si trasferisce negli Stati Uniti, dove lo yacht design era già una realtà più matura, e si perfeziona con un corso di specializzazione, che lo porta subito alla collaborazione con lo studio Nuvolari Lenard, dove resta cinque anni, imparando moltissimo. Per poi mettersi in proprio con Team For Design, fondato nel 2005, dove oggi lavorano 9 progettisti internazionali. Il suo studio ha disegnato yacht di lusso esclusivi per cantieri navali rinomati e importanti clienti in tutto il mondo e la cifra stilistica del suo design sono le finestrature a taglio geometrico nello scafo: “inizialmente non erano capite. Nel 2005 tutti sceglievano forme curve, che abbiamo fatto anche noi per altri cantieri, ma queste erano le finestre che a me piacevano: pulite, minimaliste, senza tempo”.

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Elemento che torna anche in uno degli ultimi progetti dell’architetto, l’Aston 66 di Rossinavi. “La mission era creare un megayacht con tanti spazi interni, però veloce e dinamico. Se ne guardiamo il sideview, questo 66 metri ready-to-build sfugge dal foglio, sembra che stia già correndo. Le linee dritte, ma in tensione, e le finestrature lunghe e continue, non troppo alte, ma che danno grande visuale verso l’esterno, danno l’idea che questo sia uno yacht già in movimento”.

Proporzioni sportive che si notano anche “nell’upper deck, molto appoppato e basso in modo da lasciare ampio spazio alla prua, che ricorda il cofano pronunciato di una lussuosa coupé sportiva. Pur rimanendo una grande villa sul mare, con grandi spazi interni e tantissima luce”. Dotata di un tocco esclusivo per l’armatore, cui è riservata un’area di circa 70 mq, con cabina full beam a prua del ponte principale e due terrazze che sporgono su entrambi i lati, come se fossero le alette di una macchina sportiva. “All’esterno, l’effetto scenico lo troviamo a poppa, oggi considerata il biglietto da visita di un megayacht: nella piscina, una cascata passa tra due vetri e appare come se corresse nella lingua nera che arriva al ponte. E una speciale illuminazione fa sì che, a portellone aperto, una serie di barre a led della stessa lunghezza crei una cattedrale di ponti fino all’albero, gioco di luci ripreso dalle scalinate e dalle griglie d’aerazione sul main deck”.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato su THE ONE – Yacht & Design di marzo 2016.

 

Marie Claire Maison – Guida Design 2016

16 Feb

Tutti i testi della Guida Design 2016 di Marie Claire Maison

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Alimentazione integrale

8 Feb

cuore di fibraSono anni che sentiamo dire che mangiare cibi integrali fa bene. E infatti su questo assunto non c’è alcun dubbio, salvo le eccezioni che esistono per ogni regola: non tutto fa bene a tutti, questo si sa. A parte nel caso di alcune patologie intestinali, che i cibi ricchi di fibra, tra cui i cereali integrali, siano salutari lo confermano numerosi studi pubblicati negli ultimi anni, tra cui uno recente e completo pubblicato dall’American Journal of Clinical Nutrition, che ha elaborato i dati relativi a più di 450 mila adulti (età media 51 anni), monitorati per 13 anni e condotto in 10 Paesi europei. Osservando le persone che assumevano le maggiori quantità di fibra alimentare (almeno 28,5 grammi al giorno) e quelle che ne assumevano di meno (meno di 16,4 grammi al giorno), i ricercatori hanno rilevato che nei primi il rischio di mortalità era del 24% inferiore rispetto agli altri. E c’è di più: i maggiori mangiatori di fibra riducevano questo rischio di circa il 10% per ogni 10 grammi di fibra in più al giorno. Oltre a migliorare le funzioni intestinali, la fibra agevola infatti l’eliminazione del colesterolo e dunque riduce il rischio di malattie cardiovascolari, aiuta i malati di diabete di tipo 2 perché riduce l’assorbimento di zuccheri e regola la risposta insulinica e previene alcune forme tumorali. Alimenti ricchi di fibre, inoltre, danno una maggiore sensazione di sazietà, contribuendo così a contenere la quantità di calorie assunte ogni giorno e dunque a contrastare il sovrappeso e l’obesità.

mercatoMa dove si trovano le fibre? In tutti gli alimenti di origine vegetale. Nella frutta e nella verdura, nei legumi (fagioli, lenticchie, ceci, fave, ecc), ma secondo alcuni studi come quello citato all’inizio dell’articolo, quelle contenute nei cereali sono le più benefiche. Cereali integrali, ovviamente, che bisognerebbe iniziare a vedere come sinonimo di ricchezza e non di povertà: per ottenere la farina bianca, infatti, ingrediente base del pane, della pasta, della pizza e dei dolci, quindi di buona parte di ciò che si mangia nella dieta mediterranea, dal grano vengono tolte la parte esterna, contenente crusca, ricca di fibre e vitamine del gruppo B, e il germe, ricco di oli polinsaturi (i grassi “buoni”), vitamine, minerali e proteine. «E’ utile introdurre nella dieta prodotti a base di cereali integrali come pasta, pane, biscotti e altri prodotti da forno », spiega Marina Carcea, direttore del Programma Cereali dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN). «Se volete controllare le calorie, però, attenzione ai prodotti a base di cereali integrali che contengono anche molti zuccheri e grassi, come le barrette e altri dolci».

Ma quanta fibra serve al corpo? L’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare) raccomanda di assumere almeno 25 grammi di fibra al giorno, ritenuto adeguato per un normale funzionamento dell’intestino in una persona adulta sana. Su questo valore concorda anche la Società Italiana di Nutrizione Umana, che quest’anno ha rivisto i suoi valori Larn, i Livelli di Assunzione di Riferimento per la popolazione italiana, e che consiglia di prediligere carboidrati a basso indice glicemico, che, guarda caso, sono proprio i cereali integrali.

Ma se abbiamo sempre mangiato così…

Nell’immaginario comune, però, “integrale” è sinonimo di “diversamente gustoso”. Al gusto integrale, infatti, la maggior parte di noi non è abituata, perché siamo stati svezzati senza questo tipo di alimenti e dunque il nostro palato li registra come meno buoni dei cibi raffinati. Una delle obiezioni più comuni che si sente fare chi mangia cibi integrali è “ma abbiamo sempre mangiato pasta e pane bianco, perché cambiare?”. La risposta da dare a questa obiezione è che non è vero che abbiamo sempre mangiato prodotti derivati da farine bianche. Cioè, sì se siamo nati dopo gli anni 50/60, ma chiedendo alle persone più adulte si scoprirà che, prima, pane e pasta si ottenevano da farina integrale. La nostra alimentazione ha subito un profondo cambiamento nel secondo dopoguerra, quindi da soli 60 anni, ma il nostro corpo è frutto di un’evoluzione che è durata secoli. La farina ha iniziato a essere raffinata perché veniva considerata come un prodotto puro e facilmente digeribile, era simbolo del progresso tecnologico perché aveva una migliore lavorabilità nei processi industriali, accorciava i tempi di lavorazione e ne migliorava la conservabilità. È frutto dell’industria, insomma. E all’industria ha creato molti vantaggi, mentre al nostro corpo un po’ meno, perché a risentirne è soprattutto il corretto funzionamento dell’intestino, dal momento che le farine bianche e i derivati si trasformano in un composto colloso che rallenta il transito intestinale e in alcuni casi ostacola l’assorbimento delle sostanze nutritive.

 

Occhio all’etichetta

Chi ha deciso di provare alimenti integrali, però, deve compiere un ultimo atto di consapevolezza, perché dietro alla scritta pane, cracker o biscotto “integrale” molto spesso si nascondono alimenti in cui la farina integrale è inferiore al 50% del totale, meno della metà. «Non esiste ancora nessuna legge che regolamenta il legame tra quantità di sfarinato integrale utilizzato come materia prima e la dicitura “alimento x,y,z integrale”», precisa Marina Carcea. Se avete deciso di fare un favore al vostro organismo e mangiare integrale, perciò, fate lo sforzo di leggere le etichette, perché la sola scritta “integrale” sulla confezione può essere fuorviante. Pian piano individuerete i prodotti e le marche di cui potete fidarvi, quelli a più alto contenuto di farine integrali e, una volta noti, andrete a colpo sicuro. Se mangiare cibi integrali è sinonimo di ricchezza nutritiva, è bene sapere che sempre nel secondo dopoguerra la nostra dieta si è anche impoverita di varietà. Quindi è bene arricchirla: nel caso dei cereali, non esiste solo la pasta integrale, ma sarebbe bene inserire nel proprio menù anche riso (arborio ma anche rosso, venere, …), orzo, farro, quinoa, grano saraceno, avena e miglio in chicchi. Preferibilmente biologici, perché dei cereali integrali si mangia anche lo strato più esterno, sul quale potrebbero rimanere tracce di sostanze nocive.

Quali sono i cereali integrali

CEREALE   INTEGRALE NON INTEGRALE
Frumento Bulgur, cous cous integrale, crusca, farina integrale, farina integrale di grano duro (per la pasta), grano saraceno Couscous, farina bianca (00),cereali da colazione soffiati,

germe di frumento

Farro Farro decorticato, farro perlato (semintegrale)
Avena Avena integrale, fiocchi d’avena integrale Farina raffinata d’avena
Orzo Orzo integrale, orzo mondato, e nudo, orzo perlato (semintegrale) fiocchi d’orzo, farina d’orzo
Riso Riso selvaggio, riso integrale,riso venere Riso bianco, farina di riso
Mais Mais integrale, popcorn,tortillas di mais integrale Semolino di granturco, polenta, farina di granturco a grana fina

 

Quanta fibra c’è negli alimenti?

ALIMENTI a maggior contenuto di fibra alimentare      FIBRA TOTALE

Crusca di frumento                                                                 42,4%

Legumi (Fave, fagioli, lenticchie, piselli, soia…)         4,2-21%

Pop corn                                                                                      15,1%

Frutta secca (Castagne, fichi, uvetta, prugne, mandorle, …)  10-13,8%

Orzo perlato                                                                              9,2%

Farina di frumento integrale                                              8,4%

Frutta secca (Mandorle, noci, nocciole, arachidi)      6-14%

Farro                                                                                             6,8%

Pane integrale                                                                          6,5%

Frutta fresca    (Lamponi, mele, pere, pesche, arance,…)       0,2-7,4%

Verdura fresca/cotta                                                              0,4-7,9%

Pasta di semola integrale                                                       3%

Farine bianche (quindi anche pasta bianca)                  1,5-2,2%

Altro   (Olio, zucchero bianco, carni, bibite)                 Quasi 0%

Dati elaborati in base alla tabella di composizione degli alimenti Inran

 

Disturbi del sonno

8 Gen

I 5 che temiamo di più

Insonnia, sindrome delle gambe senza riposo, insonnia paradosso, sonnambulismo, apnee notturne

insonnia«Dormiamoci su». È un buon proposito quando si affrontano questioni importanti e complesse la cui soluzione non è evidente. Parrebbe solo un modo di dire, ma come sempre dietro la saggezza popolare si nasconde una verità scientifica: se chiedete a più medici a cosa serve il sonno, otterrete risposte diverse, perché esattamente a cosa serva non si sa (ancora). Ma tutti concordano sul fatto che quando dormiamo il cervello svolga diverse attività, tra cui la riorganizzazione di dati, la memorizzazione e l’eliminazione delle informazioni ritenute superflue. Semplificando, è un po’ come se di giorno il cervello raccogliesse informazioni e di notte le riordinasse.

Sono tantissime, però, le persone che, pur non andando incontro ad allucinazioni o comportamenti psicotici come se non si dormisse mai, soffrono dei cosiddetti disturbi del sonno, difficoltà ad addormentarsi o ad avere un sonno ristoratore che si ripercuotono sull’attività diurna, rendendoli irritabili, generando un calo dell’umore e una difficile concentrazione, oltre che stanchezza. Con conseguenze che alla lunga si riflettono sull’intero organismo. L’indagine epidemiologica più completa condotta in Italia, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Sleep Medicine nel 2004 e nel 2006, è lo Studio Morfeo, che ha preso in esame un campione di oltre 3 mila pazienti di medici di base ai quali è stato fatto compilare un questionario. Rispondendo alle domande circa la qualità del loro sonno era emerso che il 64% soffriva di insonnia, il 20% di livello 1, ovvero senza conseguenze sulla qualità di vita diurna, e il 44% di livello 2, ovvero con disfunzioni diurne come difficoltà lavorative, di attenzione, di memoria. I pazienti con problemi di insonnia erano anche quelli che ricorrevano più spesso al medico, avevano più ricoveri e richiedevano una spesa sanitaria più alta per problemi diversi dall’insonnia. Perché è stato dimostrato che l’insonne cronico incorre in una serie di altre patologie anche serie.

C’è chi conta le pecorelle…

difficoltà dormireOltre che sul sistema sanitario nazionale, però, l’insonnia pesa soprattutto sulla vita di chi ne soffre. Le cause possono essere molte e vanno dai disturbi psichici comuni, come la depressione o i disturbi d’ansia, a problemi neurologici meno frequenti, come la sindrome delle gambe senza riposo o la sindrome da alterata percezione del sonno, oppure può originare da alterazioni del ritmo sonno-veglia (per esempio chi lavora di notte o su turni) o da un’abitudine a essere attivi nelle ore notturne per motivi sociali (uscire con gli amici, discoteche, cinema, ecc.). Spesso l’insonnia è transitoria e psicofisiologica, ovvero non si dorme perché si è agitati per via di qualche evento particolare, per esempio un lutto. Questa può passare da sola, ma se trascurata può diventare cronica e durare anche mesi o anni. Anche la menopausa e la gravidanza, a causa dei forti cambiamenti ormonali, possono creare problemi di insonnia. «Quando la difficoltà ad addormentarsi o i risvegli notturni perdurano per più di una settimana, è il caso di rivolgersi al medico di famiglia», raccomanda il Lino Nobili, neurofisiopatologo, neuropsichiatra, responsabile del Centro di Medicina del Sonno dell’Ospedale di Niguarda a Milano. «Se poi il paziente non risponde alla terapia, che è multidisciplinare e a seconda dei casi comprende farmaci, un aiuto psicologico e un miglioramento delle abitudini legate al sonno, allora è il caso di rivolgersi a centri specializzati per eseguire esami più approfonditi».

L’insonnia si manifesta in diversi modi: c’è chi impiega anche ore per addormentarsi, chi ci riesce ma si sveglia dopo poche ore e chi ha solo la percezione di non riuscire a chiudere occhio. «Esiste infatti l’insonnia paradosso, quella di chi ritiene di non dormire affatto o pochissimo, ma che quando viene sottoposto all’analisi del sonno (polisonnografia) in realtà si scopre che dorme. Il problema è piuttosto un disturbo della profondità del sonno, è come se mantenesse parte dell’attività cerebrale attiva anche quando dorme. Ma durante il giorno non ha sintomi da deprivazione di sonno».

Il dottor Nobili ci spiega anche un altro disturbo abbastanza diffuso, che ritarda l’addormentamento: la sindrome delle gambe senza riposo. «I pazienti accusano difficoltà ad addormentarsi a causa di un fastidio alle gambe, che si manifesta come un prurito, o come l’impossibilità di tener ferme le gambe. La causa non è chiara, ma ha un andamento circadiano, ovvero un ciclo che si compie in un periodo di circa 24 ore, con un picco del disturbo nelle ore serali, che si riduce durante la notte. I sintomi possono sorgere a qualsiasi età, esiste una certa familiarità e c’è una correlazione con la carenza di ferro. La cura è farmacologica».

Oltre all’insonnia, a colpire molte persone è anche la sonnolenza diurna, di cui i pazienti non capiscono l’origine, ma che spesso è dovuta a disturbi respiratori nel sonno, come la sindrome delle apnee notturne, estremamente frequente se si pensa che sopra i 50 anni colpisce circa il 20% della popolazione. Se non curate, oltre alla sonnolenza diurna possono creare ipertensione arteriosa e scompensi cardiaci, nei casi più gravi. Molti incidenti di auto sono dovuti alle conseguenze di questa sindrome. apnee notturne

Tra i disturbi più diffusi e che spaventano c’è anche il sonnambulismo: «è molto frequente, chi ne soffre ha un disturbo di dissociazione, di notte compie azioni, a volte bizzarre, e quando si sveglia non ricorda nulla. Questo perché una parte del cervello, quella che regola la capacità di muoversi ma che è anche legata alle emozioni più arcaiche, si sveglia, mentre altre parti, tra cui quella della coscienza del sé e l’ippocampo, che regola la memoria, permangono in uno stato di sonno profondo. Compare di norma per la prima volta tra i 4 e gli 8 anni, con un picco all’età di 12 e scompare da solo verso i 15 anni. Se gli episodi invece iniziano nell’età adulta e si protraggono nel tempo, possono esservi alterazioni psicopatologiche alla base». È vero che non bisogna svegliarli? «In realtà non si riesce a svegliare un sonnambulo. Si può cercare di interagire per riportarlo a letto, ma con dolcezza, perché per i motivi che abbiamo detto, se si spaventa potrebbe avere anche comportamenti violenti, di cui non è cosciente».

Quando l’età avanza…

In generale, i disturbi del sonno sono tanto più diffusi e gravi quanto più ci si inoltra nella vecchiaia. Lino Nobili conferma che sono più frequenti dopo i 50 anni, ma possono presentarsi a tutte le età. Come si legge nel libro Sonno e insonnia di Mario Barucci (Utet), quando si diventa anziani «si modifica l’architettura generale del sonno e si riduce progressivamente il sonno profondo. I risvegli, pertanto, diventano sempre più frequenti». Così gli anziani sono più portati a fare sonnellini diurni, un po’ come i bambini piccoli, solitamente non conteggiati nelle ore giornaliere dormite, ma che in realtà contano. Inoltre, «tutto questo porta a una desincronizzazione dei ritmi circadiani tra le varie funzioni vegetative, endocrine, ecc., cosa che provoca una soggettiva sensazione di sonno non ristoratore e stanchezza durante la veglia».

L’igiene del sonno in nove passi

Così come esiste l’igiene del corpo che va mantenuta con sane abitudini quotidiane, anche per il sonno esistono le giuste regole da adottare affinché sia ristoratore. Ecco le principali, redatte dal Centro specialistico di Medicina del sonno dell’Ospedale Niguarda di Milano.

1. Andare a letto e alzarsi sempre alla stessa ora

2. Andare a letto solo se si ha sonno; se non si riesce a dormire è meglio alzarsi, spostarsi in un’altra stanza e fare qualcosa di rilassante

3. Non usare il letto per guardare la tv, mangiare, lavorare o studiare

4. Ridurre i sonnellini o non effettuarne in orari troppo inoltrati nel pomeriggio: influenzano negativamente il sonno notturno

5. Evitare l’uso di caffeina, di alcol e di tabacco nelle ore serali

6. Fare esercizio fisico durante la giornata ma evitare quelli faticosi e le attività mentali più impegnative prima di coricarsi

7. Evitare che la stanza da letto sia troppo calda

8. Non dormire davanti al televisore prima di coricarsi

9. Non abusare di sonniferi

Per chi pensa di avere un disturbo

Chi pur essendo andato dal medico di base e aver seguito una terapia non ha risolto il suo problema, può rivolgersi ai centri specialistici di Medicina del sonno presenti su tutto il territorio italiano ed elencati sul sito dell’Associazione italiana Medicina del sonno (Aims): www.sonnomed.it. Sono 41 in tutta Italia e anche il vostro medico saprà indicarveli. Questi centri multidisciplinari coinvolgono diversi specialisti utili a formulare una giusta diagnosi e una cura appropriata: neurologi, psichiatri, psicologi, pneumologi, otorinolaringoiatri, chirurghi maxillo-facciali, odontoiatri e pediatri.

Il sale della vita

21 Mar

samuela urbini giornalistaCome ogni sostanza di cui si abusa, anche il sale se assunto in dosi eccessive diventa pericoloso. Lo sostengono ricerche internazionali che lo vedono come causa dell’aumento della pressione arteriosa (ipertensione), con un conseguente aumento del rischio che insorgano patologie gravi come ictus e infarti. Un consumo eccessivo di sale influisce sul metabolismo delle ossa ed è anche correlato al rischio di cancro allo stomaco, naso-faringe e gola, come confermato dalle linee guida dell’American Cancer Society, aggiornate ogni 5 anni e pubblicate a inizio 2012. Soprattutto nelle persone predisposte. «Il ruolo causale tra l’abuso di sale e le malattie cardiovascolari, in primis l’ipertensione, ma anche l’ictus cerebrale e l’infarto, è ampiamente documentato», conferma Pasquale Strazzullo, coordinatore del Gruppo di lavoro intersocietario per la riduzione del consumo di sale (Gircsi) in Italia e professore ordinario di Medicina interna dell’Università Federico II di Napoli. L’Istituto Superiore di Sanità afferma che diminuendo il consumo di sale a meno di 5 grammi al giorno, cioè circa la metà di quanto ne assumiamo oggi in media, si potrebbe ridurre la pressione come se fossimo dimagriti di 10 kg o se facessimo 30 minuti al giorno di camminata a passo sostenuto. Uno degli studi più completi in atto è quello del progetto Minisal-Gircsi (Gruppo di lavoro intersocietario per la riduzione del consumo di sale in Italia), finanziato dal Ministero della Salute, che sta raccogliendo dati in 15 regioni italiane su 1519 uomini e 1450 donne di età tra i 35 e i 79 anni per valutare il consumo medio giornaliero di sodio (presente nel sale), potassio e iodio pro-capite in un campione rappresentativo della popolazione italiana. Dai dati preliminari di questa ricerca pubblicati di recente dal Gircsi in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità è emerso che gli italiani assumono il doppio della quantità massima di sale raccomandata ogni giorno.

Guadagnare salute

I risultati fin qui riscontrati sono in linea con quelli di numerosi Paesi industrializzati: molti hanno già in atto programmi di riduzione del consumo di sale, come il caso emblematico della Finlandia in cui è stato ridotto il consumo medio giornaliero da 14 grammi a circa 8 e mezzo (in 35 anni), con il risultato di aver ridotto l’incidenza di ictus dell’80%. E l’Italia non è rimasta indietro: il Ministero della Salute ha siglato un accordo nel 2009 con le principali associazioni della panificazione artigianale e industriale per una  progressiva riduzione del contenuto di sale nel pane (15% in meno in 2 anni, entro il 2011), poiché questo alimento è di solito presente sulla sulla tavola degli italiani tutti i giorni e dunque rappresenta una delle principali fonti di assunzione. Quindi in panetteria troviamo già il pane con meno sale? Fa il punto della situazione Daniela Galeone, dirigente medico del Ministero della Salute e referente di Guadagnare salute, un programma del Ministero finalizzato alla prevenzione delle malattie croniche non trasmissibili: «Gli accordi nazionali sono recepiti presso le sedi regionali e provinciali delle Associazioni, che devono farsi carico di coinvolgere i singoli panificatori, e si parla di oltre 25.000 esercizi in tutta Italia. Non era pensabile, dunque, un’adesione di massa in tempi rapidi, ma alcune Regioni, in particolare la Lombardia e l’Emilia-Romagna (Asl di Bologna) stanno implementando a livello locale i protocolli, lavorando con le sedi locali delle Associazioni». Sul sito Regione.lombardia.it, per esempio, si trova l’elenco dei panificatori aderenti. E alcuni pani industriali (tra cui alcuni a marchio Coop, Barilla e di altre aziende) sono già in commercio e riportano sulla confezione il logo Guadagnare salute (con il cuore che ride).

Il logo del programma Guadagnare salute.

Il logo del programma Guadagnare salute.

Sane abitudini da recuperare

A parte quello che aggiungiamo ai nostri piatti, di cui possiamo controllare direttamente le dosi, chi volesse diminuire l’apporto di sale deve fare attenzione ai cibi già pronti: «Circa i due terzi del sale che introduciamo nella nostra alimentazione si trova nei prodotti trasformati», aggiunge Pasquale Strazzullo. Come pane, prodotti da forno (biscotti, crackers, grissini, ma anche merendine, cornetti e cereali da prima colazione), seguiti da insaccati e formaggi, patatine fritte o pesci conservati come il tonno. «L’obiettivo più importante è dunque quello di ottenere dall’industria alimentare una riduzione dell’utilizzo di sale». Secondo l’Inran, infatti, più della metà (54%) del sale che ingeriamo è contenuto nei cibi conservati e precotti, quello presente nei cibi freschi è molto meno (circa il 10%) e quello aggiunto quando si cucina o in tavola è circa il 36%. Altre stime della Commissione Europea, invece, asseriscono che il sale presente nei cibi industriali o consumati fuori casa arriva a più del 75% e quello aggiunto nelle preparazioni domestiche è solo il 10% circa. Insomma: più cuciniamo noi il cibo che mangiamo, più siamo sicuri di riuscire a controllare la quantità di sale (e non solo) che vogliamo ingerire.

Senza sale non vuol dire senza sapore

Al sapore del sale siamo stati abituati fin da bambini, quindi diminuire le dosi vuol dire passare attraverso un periodo di transizione in cui ci sembrerà di mangiare cibi insipidi. C’è una buona notizia, però: il palato si abitua! Piano piano i nostri piatti ci sembreranno avere il giusto gusto, anzi, riscopriremo l’autentico sapore dei cibi, che esiste, ma che il sale appiattisce. L’importante è farlo gradualmente. Se no ci si infligge un inutile supplizio che con ogni probabilità farà fallire nel proprio intento. I cibi si possono insaporire con erbe e spezie, di cui anche la nostra cucina è ricca. Via libera a basilico, prezzemolo, rosmarino, salvia, origano, maggiorana, peperoncino, noce moscata e così via, nonché all’aceto e al succo di limone, alleati preziosi in cucina. Da usare, ma con parsimonia, invece, i dadi da brodo, la senape, la salsa di soia e il ketchup, anch’essi ricchi di sale. «Anche i medici di medicina generale e i pediatri sono al fianco del Ministero della Salute per informare ed educare la popolazione», ha aggiunto la dottoressa Daniela Galeone. «Importantissimo è, per esempio, educare i genitori a non aggiungere sale alle pappe dei bambini al momento del divezzamento».

Un mondo di sale

Il sale rosa dell'Himalaya

Il sale rosa dell’Himalaya

Il sale che comunemente usiamo, fino o grosso, è sale che subisce un processo di raffinazione che lo porta al suo caratteristico colore bianco (un po’ come lo zucchero), ma che lo priva della ricchezza di oligominerali che il mare gli ha donato, salvando solo il cloro e il sodio. Al sale bianco si aggiungono inoltre additivi anti-igroscopici, perché non formi i grumi con l’umidità, e in alcuni casi lo iodio, importante perché anche in Italia esistono casi di gozzo, malattia carenziale per contrastare la quale gli endocrinologi consigliano a tutti di utilizzare questo sale. Il sale naturale, o sale integrale, che non viene raffinato e si ottiene dall’evaporazione dell’acqua di mare e da un trattamento di lavaggio e purificazione non chimica, contiene iodio ma in quantità inferiori rispetto a quello del sale iodato artificialmente (dipende dalle zone di raccolta), quindi non è sufficiente per prevenire le carenze iodiche, come precisa il Ministero della Salute. In commercio si trova anche il sale dietetico, che contiene meno sodio, in quanto parte del cloruro di sodio è sostituito da cloruro di potassio, ma che è consigliato da alcuni medici solo agli ipertesi che non riescono a ridurre il consumo di sale. Se si va in un negozio gourmet, infine, si trovano infiniti tipi di sale, aromatizzati e di tutti i colori, che rispondono soprattutto a esigenze commerciali. Il più famoso di tutti forse è il sale rosa dell’Himalaya, che è integrale e conserva una ricchezza di oligoelementi superiore a qualsiasi altro. Ma se teniamo presente la regola aurea su cui sono d’accordo cardiologi ed endocrinologi, “poco sale, ma iodato”, è evidente che i sali, anche i più pregiati, si possono usare, tenendo presente che dovendone mangiare meno possibile, non si può demandare solo a essi l’assunzione di questi preziosi oligoelementi.

Quanto sale nei cibi di tutti i giorni

La dose giornaliera di sale raccomandata è di massimo 5 grammi. Ed ecco quanto se ne trova in media in quello che mangiamo.

300 g pizza o focaccia                         circa 5 grammi di sale

50 g prosciutto crudo dolce                 3,25 g

1 piatto pasta pronta surgelata          2,5 g

3 g di dado da brodo                             1,25 g

100 g fagioli in scatola                        1,25 g

50 g prosciutto cotto                            0,35 g

50 g di parmigiano                              0,875 g

1 fetta di pane  circa                             0,375 g

pane sciapo o toscano                         quasi 0

frutta e verdura                                      quasi 0

Dati: Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione.

Per Info:

http://sapermangiare.mobi/linee_guida.html

Ministero della Salute: www.salute.gov.it

 

Articolo scritto da: Samuela Urbini

L’articolo è stato pubblicato sul mensile VIVERE IN ARMONIA di dicembre 2012.

Container Mania

21 Feb
samuela urbini journalist

Fasi di lavorazione per la costruzione del Cruise Center di Amburgo. @ Photo by Hylmar Möckel

Uno dei riusi più virtuosi in campo architettonico è quello dei container. Grandi contenitori in metallo che possono essere caricati su un camion, così come su un treno o su una nave senza dover trasferire più volte la merce da un mezzo di trasporto all’altro, sono nati nel 1956, quando l’imprenditore Malcom Mclean ebbe l’idea che avrebbe rivoluzionato la logistica degli anni a venire. Un unico contenitore che poteva essere facilmente manovrabile e adatto a ogni mezzo di trasporto era l’uovo di Colombo, ma fu un’idea che ebbe il merito di abbattere tempi e costi della logistica. A tal punto che oggi comprare nuovi container a ogni viaggio è meno dispendioso che riportare indietro quelli usati e vuoti, che spesso rimangono stoccati nei porti in attesa di essere riempiti di nuove merci e riportati al porto d’origine dove opera lo spedizioniere. In alcuni casi non verranno più riempiti e dunque diventeranno un rifiuto. L’idea di riutilizzarli donando loro una nuova vita è quindi qualcosa di molto, molto utile.

In un primo momento alcuni architetti pionieri li hanno riutilizzati come elementi di costruzione low cost e che portano in sé un carattere di movimento, di temporaneità. Sono quindi diventati luoghi-non luoghi per mostre itineranti o per case “portatili”. Negli ultimi anni invece il container ha avuto un secondo ciclo di vita ancora più virtuoso, grazie all’interessamento da parte dei più grandi studi di architettura internazionali. Che ne hanno messo in luce due caratteristiche peculiari: il container è green, dal momento che l’energia impiegata per realizzarlo è già stata spesa, quindi riusarlo ne consuma pochissima; ed è modulabile, quindi utilizzabile in combinazione di più unità insieme, per andare a costruire abitazioni di alto livello, flagship store, centri culturali, hotel o altri spazi adibiti all’accoglienza del pubblico.

Di solito i container hanno dimensioni standard: sono a forma di parallelepipedo di 2,44 metri di larghezza, per 2,59 di altezza e due lunghezze, 6,10 o 12,20 metri. Essendo strutturati per resistere anche al trasporto in mare, sono molto resistenti e durano a lungo, inoltre si trovano ovunque nel mondo, e in grande quantità.

samuela urbini journalist

Il Freitag Flaghsip Store a Zurigo. @ Photo by Roland Tännler

Annette Spillmann e Harald Echsle dello studio spillmann echsle architekten li hanno scelti per il Freitag Flagship Store di Zurigo, dove vengono vendute le bellissime messenger bag dei fratelli Freitag, diventate culto perché realizzate in materiali riciclati come copertoni usati, teloni di camion e cinture di sicurezza. Coerentemente con il prodotto, anche l’edificio ha scelto un materiale riciclato: il container. I contenitori all’esterno conservano memoria del loro passato, visibile nelle colorazioni diverse e nei codici di trasporto e identificazione ancora presenti, mentre l’interior design dello spazio vendita annulla queste differenze a favore di un allestimento omogeneo e moderno. Per la costruzione sono stati scelti 17 container standard, quelli lunghi 6 metri, con una base che poggia su due file di 4 container, sulle quali si erge la colonna di altri 7 container che va a formare la caratteristica torre che si spicca anche da lontano. Tutti i container sono stati scelti ad Amburgo e trasportati a Zurigo in treno e per unirli sono stati usati solo materiali provenienti dall’industria logistica, compresi i rinforzi diagonali usati per sopportare alti carichi dovuti al vento. Le pareti laterali sono diventate trasparenti per ottenere un’intensa illuminazione naturale e per far sì che dall’esterno si possa vedere dentro, come se fosse una vetrina.

samuela urbini journalist

Lo Sjakket Youth Centre a Copenhagen. @ Photo by Vegar Moen

Un altro esempio emblematico del riuso di container è lo Sjakket Youth Centre, nato dalla riconversione di una fabbrica in disuso, oggi centro per giovani immigrati ai quali viene data un’alternativa alla vita da strada con attività sportive e culturali. Realizzato da PLOT, studio di architetti che oggi ha dato origine a due studi diversi, Big e Jds, lo Sjakket Youth Centre si trova in una zona industriale vicino a Copenhagen. I muri esterni dell’ex fabbrica sono stati preservati, anche perché sotto vincolo di salvaguardia, e la struttura industriale del passato fa da sfondo alla più attuale urban street culture visibile nei graffiti che sono stati preservati e usati come ispirazione per le scelte cromatiche dell’edificio. Le finestre esterne hanno tutte una tonalità diversa che va dal rosso al blu e tra gli ampi soffitti a volta dei due ambienti che compongono il centro si trova una terrazza per prendere il sole, con pavimento in doghe di legno simile al ponte di una nave, da cui si accede all’altro elemento originale della struttura, il lungo container rosso che unisce le due volte, uno studio di registrazione chiamato Ghetto Noise.

article by samuela urbini journalist

Cruise Center Hamburg

Due elementi marinareschi sono la linea guida del moderno Cruise Center di Amburgo, in Germania: i classici container e il tetto costruito come se fosse un’immensa vela bianca, illuminata, simbolo di eleganza, lusso e vita sportiva. Progettato e realizzato dallo studio di Amburgo Renner Hainke Wirth Architekten, il terminal passeggeri ha i muri perimetrali realizzati con container ridipinti in diverse sfumature di blu, come richiamo al mare, a contrasto con il rosso della pavimentazione interna. Ad alcuni dei container perimetrali sono state sostituite le pareti di acciaio con pareti trasparenti, che permettono ai passeggeri appena sbarcati la vista sulla città di Amburgo e su uno dei suoi simboli, la chiesa di St. Michaelis. Gli ampi spazi che raggiungono i 1200 metri quadrati hanno un soffitto molto alto e spazioso, con una copertura reticolare disposta su un piano inclinato (da 9,40 a 11,40 m), che crea una silhouette simile a quella di una nave. Una delle meraviglie è anche che l’intera struttura è stata costruita in soli quattro mesi.

Articolo scritto da: Samuela Urbini

Per vedere l’articolo sul riuso virtuoso dei container in architettura, pubblicato su YACHT DESIGN n. 6 2012: container_YD 6 2012

Yoga for manager

21 Gen
by samuela urbini

Yoga per manager

Cos’hanno in comune Google, General Mills, Bmw, Deutsche Bank e Barclays? Sono tutte multinazionali e tutte hanno portato le discipline orientali in azienda per prendersi cura del benessere dei propri dirigenti e dipendenti. Si è infatti sviluppata da qualche anno negli Usa, in Inghilterra e anche in Germania la tendenza a introdurre yoga, tai chi e altre arti orientali nei corsi di formazione aziendale o come benefit per i propri dipendenti, perché si è scoperto che alleviano lo stress, la malattia del terzo millennio, da cui quasi nessuno è immune. E con la diminuzione dello stress, le persone si ammalano meno, diventano più produttive e collaborative. Alla General Mills, corporation cui fanno capo marchi come Häagen-Dazs, da 7 anni il martedì mattina è prassi aziendale il corso di meditazione e yoga. E in ogni building del quartier generale, in Minnesota, c’è una stanza attrezzata con cuscini da meditazione e tappetini yoga. A Mountain View, in California, nella sede centrale di Google, da anni si praticano yoga, meditazione e mindfulness (una tecnica che deriva dalla meditazione Vipassana buddista), come metodi efficaci per gestire lo stress, inseriti all’interno del programma “Search Inside Yourself”. Un’altra azienda americana, Aetna, ha realizzato una ricerca con la Duke University School of Medicine che ha rilevato come un’ora di yoga alla settimana abbia ridotto il livello di stress dei dipendenti di un terzo, abbassando altresì i costi aziendali per malattia. A Londra, seguono programmi di yoga anche i dipendenti di First Direct, Taj Hotels e della squadra di calcio West Ham United. In Germania spopolano altre discipline orientali, come il tai chi chuan e il qi gong di Awai Cheung, autore di bestseller e punto di riferimento per i manager teutonici che apprezzano i suoi programmi da fare in qualunque luogo, anche in pochissimo tempo: 5 o 10 minuti alla scrivania funzionano, sostiene il guru in giacca e cravatta. Se lo dice Awai… Che comunque è consulente di Bmw, Deutsche Bank, Deutsche Bahn e Vodafone D2, quindi qualcosa da insegnare ce l’ha senz’altro. C’è però chi ha un atteggiamento più scettico, come il medico sportivo e rettore dell’Università tedesca dello Sport di Colonia, Ingo Froboese, che avverte: «I lavoratori non devono aspettarsi troppo da cinque minuti di questi esercizi. Non basta inserirli nella propria routine quotidiana: queste attività hanno bisogno di spazio, tempo ed energia». Secondo il dottore, infatti, il business-yoga è solo l’ultima delle mode per uomini e donne in carriera. Una volta c’era la ginnastica da ufficio, ma «rispetto a ginnastica, yoga è un termine che suona meglio», puntualizza Froboese.

Perché fare Yoga

Perché praticare Yoga? Per non rimanere così!

Perché praticare Yoga? Per non rimanere così!

Ai neofiti, tutto questo appare un po’ New Age, è vero. Che sedendosi su un cuscino o un tappetino un’ora alla settimana uno possa sentirsi meno stressato sembra un’idea per figli dei fiori. Steve Jobs meditava regolarmente, era buddista zen ed era nota la sua capacità di avere una visione lucida su cosa fare e come: lui sosteneva che molto fosse dovuto alla sua pratica costante della meditazione. Studi scientifici hanno infatti dimostrato che meditare riduce i livelli di cortisolo, un ormone correlato allo stress: quando il cortisolo si abbassa, la mente si calma e riesce a concentrarsi meglio sui compiti, prendere decisioni risulta più facile e la comunicazione con gli altri diventa più efficace.

Perché, dunque, fare yoga in ufficio? Chi passa tante ore alla scrivania incurva la colonna vertebrale e accumula tensioni nelle spalle e nella zona lombare e spesso respira in maniera incompleta. Anche una sola ora a settimana sarebbe una fonte di relax enorme. «Le persone si stupiscono di quanto sia importante respirare in maniera corretta e completa», aggiunge Denis Rizzo, coach e insegnante di yoga di Formenergy, che propone lo yoga in azienda abbinato al team coaching. «Acquisiscono una maggiore consapevolezza del proprio corpo e di quali siano i segnali e i sintomi dello stress e imparano metodi per poterlo attenuare. Molti ci hanno chiesto di continuare anche individualmente». Lo yoga non fa necessariamente amare il proprio lavoro, intendiamoci, né il proprio capo, ma li fa accettare per come sono, nei loro lati positivi e negativi. Perché l’insegnamento di tutte le pratiche che portano alla consapevolezza dell’individuo, yoga compreso, è che il mondo non può girare come diciamo noi. Neanche se ci arrabbiamo tantissimo. Dunque prima lo accettiamo, meglio stiamo.

E in Italia?

La tendenza che all’estero è già una realtà consolidata, in Italia muove i primi passi, ma se le mode qui arrivano con qualche anno di ritardo, si può prevedere che nei prossimi cinque anni ci sarà un grande sviluppo di queste attività tra le pareti aziendali. Da tre anni Formenergy propone lo yoga in azienda abbinato al team coaching. «In Amgen Dompè sono stati programmati incontri a cadenza mensile di un paio d’ore in pausa pranzo, con gruppi di 10/12 persone», continua Rizzo, responsabile del progetto yoga e benessere organizzativo. «Alla Barclays, invece, abbiamo effettuato interventi di un’intera giornata per gruppi di funzionari e manager. Con esercizi di yoga e successivi momenti di team coaching, in cui ogni persona ha potuto acquisire la consapevolezza dei propri livelli di stress, della differenza di rendimento tra una persona stressata e una no, della necessità di prevenire lo stress attraverso l’ascolto dei segnali dati dal corpo».

Le formule con cui viene proposto lo yoga in azienda sono diverse e vanno dalla lezione settimanale, allo stage intensivo di uno o più giorni. Yoga Corporate propone il Kundalini Yoga, che combina respirazione, meditazione e rilassamento e che lavora sul corpo attraverso i Kriya, sequenze di posture e movimenti connessi con particolari respirazioni. L’ideatore e responsabile Paolo Santacà spiega «Abbiamo lavorato per cinque anni per Quadrifor, l’istituto bilaterale per lo sviluppo della formazione dei quadri del terziario, che organizza corsi per i quadri aziendali e che per anni ha inserito lo yoga nei suoi programmi. Erano pianificati dieci incontri annuali in forma di workshop tematici, ai quali le varie aziende potevano iscriversi. Uno dei più richiesti è stato quello per il mal di schiena. Tra le altre grandi aziende con cui abbiamo lavorato c’è anche Adecco».

Ama lo yoga anche l’amministratore delegato di Venere.net Marco Bellacci che, insieme all’insegnante Gabriele Paoletti, fondatore della scuola Odaka di Roma, l’ha portato all’interno della sua azienda.

È sempre dall’iniziativa di una persona che si trova in posizione di potere che partono questi programmi innovativi: Betta Gobbi, titolare di Grivel, l’azienda valdostana di prodotti tecnici per la montagna, è anche insegnante di Yoga Kundalini. Ha scoperto questa disciplina 12 anni fa in un momento di stress personale e lavorativo acuto. E da allora non l’ha mai lasciata e, anzi, ha deciso di condividerla con chi fa la sua stessa vita, i manager. «La scorsa estate abbiamo proposto sessioni di yoga per manager a Sagron Mis, in Trentino, e da quest’autunno ho in programma di organizzare weekend a Courmayeur e Cortina. Ho preparato moduli depurati dagli aspetti orientaleggianti. Estrapolare la parte più performante e adatta ai manager è fondamentale, mi interessa che queste persone ne traggano dei vantaggi immediati». E di una cosa è convinta: «Se riuscissimo a creare manager più rilassati, il mondo sarebbe migliore».

DAvide Giansoldati e il suo Yoga della risata alla Zeta Service

DAvide Giansoldati e il suo Yoga della risata alla Zeta Service

Nel 2012 c’è stata anche l’esplosione dello Yoga della risata, che utilizza le pratiche della respirazione yoga unite ad altre atte a generare una risata stimolata che, come è stato scoperto da recenti studi, sulla mente ha gli stessi effetti di una risata spontanea. Davide Giansoldati, autore del libro Ho ho ha ha ha (Xenia) l’ha già portato in molte aziende e la formula varia da sessioni di 1 ora e mezza, a  workshop più approfonditi. «E’ una disciplina che va spiegata e fatta provare», spiega Giansoldati, «quindi per me sessioni di meno di un’ora non hanno senso. A meno che non siano settimanali o quotidiane, allora anche 15/20 minuti darebbero molti benefici».

Come attrezzarsi?

Per praticare yoga l’unico strumento necessario è un tappetino antiscivolo, che consente di fare anche posizioni più difficili in sicurezza. Si trovano mediamente a 20 euro sul mercato. Per il resto, abbigliamento comodo, un po’ elasticizzato perché non sia d’intralcio e nient’altro, perché si pratica a piedi nudi. Possono essere utili un cuscino e una coperta se si fa anche meditazione, o per stare più comodi in determinate posizioni nei primi tempi, in cui si è ancora un po’ rigidi.

Manager italiani che praticano

Sono molti anche i dirigenti italiani praticanti. Per esempio, Federico Hertel della Opus Proclama spa, che ha reso lo yoga una pratica quotidiana. Così come Oscar di Montigny, direttore marketing di Banca Mediolanum, che ogni giorno da 15 anni si dedica a tecniche di respirazione e meditazione. «E’ utile a molte cose, soprattutto a prendere consapevolezza del potenziale della propria sensibilità e ad aumentarla. Per il rispetto che ho per discipline come lo yoga, però, l’azienda non mi sembra ancora il contesto più adatto. Ma mi auguro che il trend prenda presto piede, seguendo quel concetto più olistico di benessere che riconosce la centralità dell’uomo in azienda. Con queste pratiche ho avuto molti benefici anche in ambito lavorativo, aiutano a gestire meglio le sollecitazioni a cui quotidianamente siamo sottoposti. Sul piano del corpo si ha un miglior utilizzo delle risorse energetiche, a livello mentale si è più lucidi,  intuitivi e risolutivi, e sul piano della relazione si riesce a sviluppare capacità nella mediazione. Per me questo è importante, dovendo coordinare più di 200 persone, il che mi fa essere un gestore tanto di relazioni, quanto di progetti». Brunello Cucinelli, imprenditore del cachemire, si dedica invece alla pratica dei Cinque tibetani, cinque esercizi da eseguire ogni giorno, in ripetizioni crescenti, che sarebbero una fonte di giovinezza. Lui sostiene di aver riacquistato 0,25 diottrie di vista, più capelli in testa e vigore sessuale. Detta così, Cinque tibetani per tutti!

 

Articolo scritto da: Samuela Urbini

Per vedere l’articolo su “Yoga e manager” pubblicato su Business People di dicembre 2012: Yoga e manager

Che cos’è lo Yoga?

12 Nov

yoga samuela urbiniCosa viene in mente quando si sente la parola Yoga? Un gruppo di donne che, dopo aver recitato dei misteriosi “Om”, assumono una sequenza di posizioni improbabili? Facendo un sondaggio tra i proprio conoscenti, è la risposta più accreditata. Al secondo posto si posiziona chi dice che “lo yoga è come lo stretching”, confondendo chi ha preso ispirazione da chi, dato che Bob Anderson, inventore di questa forma di allungamento muscolare, si ispirò proprio allo yoga quando auto-pubblicò il suo primo libro nel 1975. Seguono altri luoghi comuni come: lo yoga è una religione, un corso dove stai seduto in silenzio per un’ora, e così via. Alcune scuole di Yoga seguono riti che possono somigliare a una forma religiosa, con il canto di mantra che fanno spesso riferimento agli dei indù. Per alcuni in effetti lo Yoga è una religione, ma in occidente lo yoga è piuttosto una ricerca spirituale che va nella direzione della scoperta della propria essenza. Nel 90% delle scuole in cui entrerete, non troverete un gruppo religioso. Si tende a riassumere l’universo Yoga con il vocabolo “unione”, della coscienza individuale con la coscienza universale. Ovvero? Gli antichi yogi credevano che, per essere in armonia con se stesso e la natura, l’uomo avrebbe dovuto integrare corpo, mente e spirito. Affinché questi tre aspetti del sé fossero integrati, emozioni, azioni e intelletto dovevano essere in equilibrio. E per trovare questo equilibrio hanno creato un sistema composto da esercizi fisici (asana), esercizi di espansione del respiro/energia vitale (pranayama) e meditazione: i tre pilastri dello yoga.

Samuela Urbini yoga

Una pratica Yoga a Times Square – New York per celebrare il solstizio d’estate 2012. (courtesy EPA/JUSTIN LANE).

Una seduta di yoga dura in media un’ora o un’ora e mezza e segue un programma composto da esercizi di respirazione, asana (le posture fisiche che sono la parte più conosciuta dello yoga), rilassamento e, in alcuni casi, anche meditazione, anche se questa a volte è insegnata in lezioni separate, pur essendo parte integrante dello Yoga. Lo Yoga non è una ginnastica dolce, richiede volontà e impegno, ma quando lo sforzo è sincero, lo yoga ripaga. E i benefici si sentono fin dalla prima lezione. Due o tre sedute a settimana sono l’ideale per chi ha problemi specifici da risolvere, per interpretare lo yoga come terapia, ma anche una seduta a settimana può essere utile: è il minimo indispensabile per vedere i cambiamenti sul proprio corpo e sul proprio stato mentale ed emotivo.

Ma a cosa serve? Sul piano fisico, lo Yoga rende elastici i muscoli contratti, forti i muscoli indeboliti, riallinea la colonna vertebrale mobilizzandola in tutte le direzioni e facendole perdere i difetti posturali acquisiti col tempo, quindi riducendo o annullando i mal di schiena cronici. Molti studi hanno dimostrato che riequilibra il funzionamento dell’intestino, quindi serve a contrastare la stipsi, la sindrome del colon irritabile, l’aerofagia. È utile per chi soffre d’asma e, sul piano emotivo, allevia i disturbi d’ansia, l’insonnia, lo stress generalizzato. Ed è una disciplina complementare a qualsiasi altro sport, perché compensa le posture viziate dal gesto tecnico-sportivo. E infine, ultimo ma non meno importante, lo yoga fa dimagrire. Non è uno degli obiettivi della pratica, ma un effetto collaterale piacevole. Aiuta a eliminare la massa grassa per il tipo di movimento svolto e la maggior consapevolezza conduce di solito a uno stile di vita, e dunque anche alimentare, più sano che, unito all’attività fisica, porta a perdere peso. Uno studio scientifico svolto su un gruppo di insegnanti di yoga dall’Istituto di Esercizio Fisico e Attività sportiva dell’Università di Milano, coordinato dal professore Arsenio Veicsteinas, specialista in Cardiologia e Medicina dello Sport, ordinario di Fisiologia Umana e direttore dell’istituto, ha dimostrato che rispetto a quanti fanno una vita sedentaria, nelle persone che praticano Yoga da almeno quattro anni il grasso corporeo è ridotto del 40 per cento e la massa muscolare è aumentata del 30-40 per cento, le ossa sono più dense e la pressione sanguigna è più bassa. Esistono poi aspetti energetici e spirituali dello Yoga, che si apprendono di solito dopo un po’ di tempo necessario a sviluppare consapevolezza del corpo e del respiro.

Tutti possono praticarlo?

samuela urbini yoga teacher

Bette Calman è un’insegnante Yoga di 86 anni e guardate cosa fa! Una perfetta Bakasana, la posizione della gru/ corvo.

Chiunque può praticare yoga, a qualsiasi età, tenendo presente però i propri limiti e le proprie caratteristiche. Siamo esseri unici, quindi le fotografie delle asana sui libri, o le posizioni eseguite dagli insegnanti, devono essere interpretate come ispirazione e non come copia da imitare perfettamente. Con lo Yoga ci si può anche fare male e questo succede quando si pratica senza consapevolezza, cercando cioè di imitare determinate posizioni indipendentemente dai messaggi che il nostro corpo ci dà, sotto forma di dolore. Si può fare qualsiasi asana, ma solo se non si avverte un dolore acuto, momento in cui bisogna uscire dall’asana perché significa che per il corpo quella posizione è una richiesta troppo alta. È buona prassi in caso di disturbi cronici farsi dire dal medico quali movimenti sono da evitare e comunicarli all’insegnante prima di iniziare il corso, che ne terrà conto e vi dirà quali posizioni saltare.

Uno cento mille Yoga

Sono 20 milioni i praticanti di Yoga negli Stati Uniti, più di un milione anche in Italia. E centinaia le scuole sul nostro territorio, alle quali vanno aggiunti i corsi che si tengono in molte palestre di fitness. Ma lo Yoga è un universo variegato ed esistono molti stili di yoga, alcuni che puntano più sugli aspetti fisici, altri su quelli spirituali e meditativi, alcuni dinamici, altri statici. E all’interno dello stesso stile, ogni insegnante avrà il suo modo specifico di tenere la lezione. Non ne esiste uno migliore di un altro, il metodo più sicuro per scegliere è andare a provare una lezione, di solito gratuita la prima volta, valutare le differenze e gli effetti su di sé e poi iscriversi nella scuola che si sente più sulle proprie corde.

Gli indirizzi utili

La Yani è la Yoga associazione nazionale insegnanti, che si pone come garante della qualità della formazione degli insegnanti associati. www.yani.it, 02 8361288.

www.yoga.it è una fonte di informazioni piuttosto completa sui vari stili di yoga, i centri dove si insegna, gli insegnanti nella propria città e i principali seminari e stage.

La rivista di riferimento per lo Yoga è lo Yoga Journal americano (www.yogajournal.com), ma anche quello italiano ha un sito www.yogajournal.it con un’infinità di informazioni, sulle asana, le sequenze da provare, tutti gli aspetti della pratica, i benefici dello yoga per ogni categoria di persone, principianti, donne in menopausa e così via.

Yoga in carcere

Elena De Martin, insegnante di Ashtanga Vinyasa Yoga de La Yoga Shala di Milano.

Lo Yoga è entrato anche nelle carceri, prima quelle statunitensi e indiane, dove la pratica nelle case di detenzione è una realtà da molti anni, e da poco anche in Italia. Il carcere di Bollate (Mi) è stato uno dei primi a introdurre un corso di Ashtanga Vinyasa Yoga nel 2007. «Lo ha richiesto un detenuto», spiega Elena De Martin, insegnante di La Yoga Shala di Milano. «Una mia allieva di Yoga era un’insegnante della scuola superiore del carcere e un suo studente, Francesco, le ha parlato dello Yoga. Hanno scoperto di avere questa passione in comune e così lei mi ha chiesto se ero disponibile a fare delle lezioni in carcere. Così è nato il progetto che continua ancora oggi». Una lezione a settimana con 7/10 studenti in media, di cui 3 o 4 particolarmente dedicati e costanti. Come opera di volontariato, ovviamente. Elena De Martin ha portato in carcere anche due maestri di meditazione indiani, i suoi maestri, e poi altri insegnanti di Yoga internazionali. «I detenuti sono cresciuti per strada, a contatto con la violenza. Vedere 30 persone ad ascoltare dei maestri di yoga mi fa pensare che questi ragazzi hanno capito che possono scegliere anche un’altra via nella vita».

Articolo scritto da: Samuela Urbini

Per vedere l’articolo su “Che cos’è lo Yoga?” pubblicato su VIVERE IN ARMONIA di novembre 2012: Vivere in Armonia_novembre 2012

MSC Divina e gli architetti de Jorio

23 Ott
de jorio international architetti

Marco, Giuseppe e Vittorio de Jorio, della de Jorio Design international

Come le sistership Fantasia e Splendida, anche Divina, l’ultima nata in casa MSC, è stata progettata da De Jorio Design International, lo studio genovese tempio del design nautico italiano che da molti anni disegna le navi da crociera di Gianluigi Aponte. La Divina condivide in buona parte con le sorelle MSC Fantasia e MSC Splendida l’impianto distributivo e urbanistico e la morfologia di molte aree, tuttavia una serie di interventi significativi ne hanno modificato i contenuti e la qualità. “Ogni nave ha la sua personalità”, commenta l’architetto Marco De Jorio. “In questa, i materiali e i colori sono stati raffreddati. Come si vede entrando nel Foyer, dove c’è molto più acciaio, la scelta dei colori è ricaduta sull’uso di molti grigi, accostati al viola o al bordeaux. Rispetto alle precedenti, la Divina è volutamente più fredda, quindi anche più contemporanea”.

Rispetto ai competitor internazionali, il suo interior design spicca per eleganza e originalità. “Esistono anche altri architetti italiani che lavorano per armatori stranieri, ma si adattano al 100 per 100 a un gusto più commerciale”, continua De Jorio. “La nostra proposta, invece, è coerente con quella che è l’immagine del brand MSC, il valore aggiunto di un armatore che produce un prodotto non solo europeo, ma italiano”.  Ecco dunque che l’interior diventa prodotto esso stesso: una grande attenzione è posta sulla ricerca del dettaglio e nell’uso proprio e coerente dei materiali, che significa che se si desidera una parete di marmo, la si fa in marmo, e non con materiali “finto-marmo”, come succede in altre realtà, con qualche eccezione nel caso del legno, per esempio, ma solo per esigenze di sicurezza. Rafaela Aponte, moglie dell’armatore, è stata come sempre un elemento cardine: “È il nostro referente fondamentale”, ha aggiunto De Jorio. “Sono sue le approvazioni di tutti i colori e i materiali che le sottoponiamo. E poi fa le sue scelte: una nave riflette sempre la proprietà”.

La novità di cui lo Studio è più orgoglioso è la Garden Pool, la piscina di poppa in stile “infinity”, in cui l’acqua si estende fino al bordo della nave ed è separata dallo spazio esterno da una vetrata. “Cattura perché è molto estroversa”, specifica l’architetto De Jorio. “È lineare, ha volumi molto bassi per stimolare l’interazione con l’esterno, cosa molto rara oggi”. L’atmosfera meditativa creata in quest’area Zen è coadiuvata dalla presenza di pavimenti trattati a finitura “erba” e da quattro sculture che sembrano dei grandi sassi, contenenti degli speaker che diffondono suoni naturali, new age, che fanno da sottofondo alla piscina. 

la piscina della nave da crociera Msc divina

La garden pool della MSC Divina

Anche se molti spazi sono uguali alle navi sorelle, gli architetti De Jorio (che oltre a Marco sono il padre Giuseppe, fondatore dello studio, e il fratello Vittorio) e il team di 12 persone che ha lavorato su questo progetto per oltre 1 anno, sono stati capaci di dare nuova personalità agli ambienti grazie alle innovazioni continue. Nei materiali innanzitutto: “Nelle palestre e spa, oltre ai marmi, utilizziamo sempre cementi con impasti nuovi. Per le piscine facciamo realizzare mosaici speciali. Nella Garden Pool, per esempio, ci sono mosaici di vetro e platino particolari, con elementi specchianti, che fanno da contrasto con il teak”. Un’altra grande novità è costituita dal ristorante-discoteca Galaxy, panoramico, che ricalca la tendenza delle località chic italiane, come Forte dei Marmi (La Capannina), dove il ristorante elegante ha la sua sala da ballo. “In Galaxy la scelta dei colori è raffinata, basata sul grigio e il nero, con elementi in rosso bordeaux, come i divani in velluto, che spiccano. L’illuminazione è l’elemento centrale: quella che è la luce naturale di giorno, proveniente dalla vetrata a tutta altezza, di notte diventa un gioco grafico generato da pannelli luminosi che disegnano sagome di lampade”. Un’infinità di particolari, insomma, in attesa di scoprire le novità che vedremo sulla Preziosa, la prossima nave MSC che dovrebbe essere in consegna a fine aprile 2013

Articolo scritto da: Samuela Urbini

Per vedere l’articolo sullo studio de Jorio di Genova pubblicato su CROCIERE n. 3 luglio 2012: http://www.playmediacompany.it/riviste_sfoglio/crociere/2012_3/index.html#/34/zoomed 
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