Profondamente legato alla maestria e al buon gusto Made in Italy, The Italian Sea Group in un decennio è riuscito a diventare il primo produttore in Italia di megayacht sopra i 50 metri, con un’ascesa che non accenna a fermarsi. Operatore globale della nautica di lusso, dal 2021 è anche quotato in borsa su Euronext Milan e la sua storia è puntellata di acquisizioni di importanti marchi della nautica italiana. Primo in ordine di tempo, Tecnomar nel 2009, seguito da Admiral nel 2011, rilevati da Giovanni Costantino, fondatore e Ceo del gruppo, che nel 2012 acquisisce ancheNuovi Cantieri Apuania di Marina di Carrara. Nel 2020 viene ufficialmente fondato The Italian Sea Group a cui, nel 2021, si sono aggiunti altri due grandi nomi: Perini Navi, leader nella produzione di yacht a vela di grandi dimensioni, e Picchiotti, un cantiere che per oltre quattro secoli ha segnato la storia della marineria militare, commerciale, da diporto e sportiva. Di cui Costantino va particolarmente orgoglioso: “Picchiotti è un brand nato nel 1575 con una storia che parte dai Medici di Firenze, che ha acceso il mio interesse, oltre al mio entusiasmo. Ho deciso di investire molto nella rinascita di questo meraviglioso nome, parallelamente a quello di Perini Navi”.
Il progetto di rilancio di Picchiotti prevede una flotta di quattro motoryacht da 24 a 55 metri denominata Gentleman, dal design elegante ispirato ai panfili americani degli anni ’60 realizzato insieme a Luca Dini Design & Architecture e con la partecipazione di Kurt Lehman e la sua Yacht Moments Consultant. Il cui principale mercato saranno le Americhe, come evidenziano anche alcuni dettagli estetici: “Abbiamo scelto di rivestire la tuga e l’interno delle falchette in mogano, materiale che nasce con la cultura americana”, spiega Costantino. “Le culle, le case, i bar in America sono in mogano. I dettagli di interior e di exterior, oltre alla linea dei nostri motoryacht, sono tutti Usa”. Un mercato fondamentale per lo sviluppo commerciale internazionale del brand, coerente anche con l’inaugurazione del primo flagship store statunitense a East Hampton, Long Island, avvenuta lo scorso 8 agosto.
Con questo progetto The Italian Sea Group entra per la prima volta nel campo della produzione in serie, pur mantenendo un posizionamento alto rispetto ai competitor: “Nella serialità, ciò che differenzia Gentleman Picchiotti dagli altri brand italiani è una produzione estremamente raffinata a livello di dettaglio qualitativo, sia interno che esterno, e la scelta dei materiali: noi non lavoriamo la vetroresina anche per una policy aziendale di sostenibilità, quindi anche il 24 metri sarà in alluminio”, specifica il Ceo. “Inoltre, non abbiamo una capacità produttiva infinita. Questo progetto punta, come tutto il resto, ad assoluta eccellenza. Potremo arrivare a 10 consegne l’anno, non di più. È, e resterà, un prodotto altissimo di gamma e di nicchia”.
Un’apertura alla produzione in serie che coinvolge anche il marchio Admiral con il progetto Panorama, nato in collaborazione con lo studio Piredda & Partners: un superyacht di 50 metri in acciaio con sovrastruttura in alluminio, ricercato anche nei materiali degli interni, naturali e pregiati, come il legno chiaro, le pietre e i metalli ruvidi, e con una cabina armatoriale panoramica posta a prua dell’upperdeck, con affaccio sul ponte privato. “La produzione seriale ci consentirà di ampliare le vendite evitando il coinvolgimento della capacità progettuale del gruppo impegnata verso i grandi yacht custom made”, che rappresentano sempre il core business aziendale.
Articolo scritto da: Samuela Urbini
L’articolo è stato pubblicato su THE ONE – Yacht and Design Titanium issue del 2022
Ci sono nomi che sono diventati simbolo di quello stile per cui l’Italia è famosa nel mondo, sinonimo di bellezza, eleganza e savoir faire. E Pininfarina è certamente uno di questi. La sua storia, lunga oltre 90 anni, ha visto uno sviluppo da impresa artigiana a gruppo internazionale: nata nel 1930, ha creato le carrozzerie di alcune delle automobili più belle del mondo, che hanno fatto la storia del design. Oggi ha oltre 500 dipendenti nelle sue sedi in Italia, Germania, Cina e Stati Uniti, ed è una casa del design a 360 gradi che opera in ogni settore, dall’automotive, a ogni tipo di mezzo di trasporto, dall’architettura, all’industrial design, in una miriade di progetti eterogenei accomunati dai tre capisaldi del suo design: eleganza, purezza e innovazione.
Se Pininfarina è un brand che non ha bisogno di presentazioni, un approfondimento merita la sua divisione nautica, che getta le sue radici negli anni 80 del secolo scorso ed è oggi ricca di progetti in collaborazione con i maggiori cantieri internazionali, con yacht bespoke come Fincantieri Ottantacinque, Rossinavi Aurea, Super Sport 50 e 65, Tango Wallycento, e restyling di intere linee come avvenuto con Princess. Rappresentando un settore strategico, la divisione dispone di un team dedicato di otto designer, con a capo Daniele Mazzon, Chief Transportation and Yacht Designer. “Il team viene ampliato a seconda del progetto, attingendo al team architettura se dobbiamo disegnare interni, o automotive se si tratta di una barca sportiva. La direzione stilistica è nel nostro headquarter di Torino, ma lavora in interconnessione con gli altri designer del gruppo, in tutte le sedi: Torino, Miami, Shanghai. Ma non solo: la cross-fertilization avviene anche con i gruppi di lavoro che si occupano di verniciatura, virtual reality, rendering, augmented reality, modellazione 3D”.
Nel processo creativo “a volte si parte da disegni digitali, altre volte da disegni a mano libera. Ma questo poco importa: sono solo mezzi che ci servono per stimolare i cantieri a realizzare qualcosa che non sia convenzionale”. Rompe decisamente gli schemi Oceanco Kairos, il progetto presentato all’ultimo Monaco Yacht Show, un 90 metri rivolto a clienti che vivono la barca in maniera statica, come una villa in mezzo al mare. Strabiliante quella che viene chiamata la piazza al centro della barca, aperta sul mare e connessa al cielo attraverso un foro passante con vetrate calpestabili, che lasciano entrare la luce grazie al design delle sovrastrutture, non puro esercizio di stile, ma funzionale a questa connessione tra cielo, mare e ambiente. “Oceanco voleva un nuovo Alfa Nero, un progetto disruptive, per armatori che arrivano in barca con l’elicottero o con il tender, entrando direttamente nella piazza, la parte più importante dello yacht, su cui affacciano tutte le cabine”. Continua Mazzon. “La collaborazione con gli architetti navali di Lateral Naval Architects è stata fondamentale: la sala macchine è stata spostata sotto il livello dell’acqua per permettere l’apertura laterale della piazza”.
Di tutt’altro stile, ipersportivo, il progetto Persico F70, realizzato in collaborazione con Carkeek design e Persico Marine, il cantiere che realizza le barche “volanti” della moderna America’s Cup. Il team nautico Pininfarina ha realizzato interni ed esterni di questo 70 piedi full foil: “abbiamo sfruttato la galleria del vento Pininfarina in un connubio di studi tra idrodinamica e aerodinamica, per arrivare a uno scafo che ha questa forma. È un’imbarcazione molto esclusiva, non solo per il costo. È come un’auto da corsa che si utilizza in pista. Rivolta a una ristretta schiera di clienti, che però esiste”, conclude Mazzon. Sportività che rimane nel dna Pininfarina anche nell’ultimissimo progetto E6, nella E Line, top di gamma delle barche sportive Elan, presentato al Salone nautico di Düsseldorf 2022.
Articolo scritto da: Samuela Urbini
L’articolo è stato pubblicato su THE ONE – Yacht and Design Carbon issue del 2021
Per i grandi e facoltosi collezionisti il limite esiste solo nella loro fantasia. Possono avere tutto: serie limitate, pezzi unici. Ma possedere qualcosa che gli altri non hanno non è ancora abbastanza. La vera emozione allora consiste nel farsi realizzare il proprio orologio esattamente come lo si è immaginato, da qualcuno in grado di trasformare la loro visione in realtà. Chiamarlo orologio risulta dunque riduttivo per opere d’arte di tale portata e costo (in milioni di euro), che sono oggi il corrispettivo di un quadro su commissione ai grandi maestri del Rinascimento. Che eleva su un piano ancora superiore determinati collezionisti.
Come quello che ha commissionato a Vacheron Constantin Les Cabinotiers sonnerie Westminster – Omaggio a Johannes Vermeer, un orologio da tasca che include alcune delle complicazioni più raffinate dell’orologeria: Grande e Petite Sonnerie, la ripetizione minuti e il Tourbillon. Impreziosite dalla riproduzione a smalto di un dipinto realizzato dalle sapienti mani di Anita Porchet, la sopraffina smaltatrice elvetica, garanzia di eccellenza.
Per il brand è un impegno in termini di tempo e denaro notevole e in pochissimi hanno le competenze per farlo. Ma Vacheron Constantin ha un dipartimento apposito: Les Cabinotiers, il team che ricalca le orme dei maestri orologiai ginevrini del Settecento a cui i dignitari delle corti europee commissionavano i loro pezzi di pregio e che avevano i cabinet, il nome dei loro studi, ai piani alti dei palazzi di Ginevra, per avere maggiore luce.
Ci sono voluti otto anni per mettere a punto questo capolavoro in ogni suo aspetto tecnico e artistico. I maestri orologiai hanno creato un nuovo movimento a carica manuale, che sarà usato solo per questo esemplare: il calibro 3671, con regolatore a tourbillon (visibile sul lato fondello), ripetizione minuti e Grande e Petite Sonnerie a carillon Westminster, una delle suonerie più complicate da realizzare, che prende il nome dalla campana del Big Ben di Londra, di cui riproduce la melodia prodotta da 5 martelletti che battono su altrettanti gong. Un doppio bariletto ne aumenta l’autonomia, di circa 80 ore per le indicazioni orarie e circa 16 ore in modalità Grande Sonnerie.
Il cuore estetico di questo pezzo unico è il coperchio del fondello, sul quale Anita Porchet ha dipinto una miniatura de La ragazza con l’orecchino di perla del pittore olandese Johannes Vermeer (1665), secondo la tecnica antica chiamata “smalti di Ginevra”, che consiste nell’applicare i colori su uno strato di smalto bianco, che rappresenta la sua tela. Trattandosi di una miniatura di 98 mm di diametro, l’artista ha usato il microscopio binoculare per realizzarne tutti i dettagli e i chiaroscuri e al termine di ogni fase ha stabilizzato il dipinto con la cottura in forno, senza possibilità di ritocchi. Solo per il turbante, sono state necessarie due settimane di lavorazione, mentre per lo sfondo nero, colore che tende a ossidarsi, sette tonalità di nero. In totale, Porchet ha impiegato due anni di lavorazione per portarlo a termine.
Articolo scritto da: Samuela Urbini
L’articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera – Dorso Orologi di dicembre 2021
Proviamo a immedesimarci: la palla si può passare solo indietro, quindi l’unico modo per avanzare e andare a fare meta nel rugby è brandire la palla in mano e correre, correre, cercando di non farsi placcare. Ottanta minuti di gioco effettivi di pura adrenalina, in cui l’infortunio è sempre dietro l’angolo. Occorrono passione, muscoli, tattica. Ma soprattutto coraggio. È nato per osare Beauden Barrett, vero talento del team più forte di tutti i tempi, la nazionale neozelandese degli All Blacks, che ha giocato contro l’Italia il 6 novembre scorso. “Nelle partite e in allenamento spesso è più facile fare la cosa sicura ed essere prudenti, ma se vuoi migliorare e metterti alla prova devi spingerti oltre i tuoi limiti”.
Il trentenne, miglior giocatore al mondo nel 2016 e 2017, insieme a tutta la nazionale è ambasciatore di Tudor, con cui condivide lo spirito autentico legato alle proprie radici e la robustezza. Gli orologi del marchio fondato da Hans Wildorf sono infatti progettati per resistere nelle situazioni più estreme e sono stati al polso degli sportivi più avventurosi. “Anche io mi sto allenando in tutti i tipi di condizioni, costretto ad evolvermi, adattarmi e a giocare sotto pressione”, aggiunge. Piena espressione del motto Tudor “Born to dare”, che gli All Blacks incarnano alla perfezione.
Dall’anno della sua fondazione, infatti, il 1884, la nazionale kiwi ha vinto più di tre partite su quattro, un’enormità. E il suo regista, Barrett, è una leggenda, ma anche parte di una squadra che è più leggendaria di lui. Infatti mantiene un understatement tipico di chi si sente parte di un tutto che ha un valore superiore. Rappresentato dalla divisa nera con la felce argentata: “sono grato di aver avuto l’opportunità di indossare questa maglia più di 100 volte. Non sappiamo mai quando sarà l’ultima, nel frattempo si tratta di onorarla e di valorizzarne l’eredità ogni volta che possiamo”. Ma come si diventa capofila del team più leggendario al mondo? “Richiede tempo. Crescita personale e sviluppo negli anni. È importante imparare dai leader del passato e portare il tuo stile di leadership. Essere autentici è tutto: le persone ti seguiranno se sei genuino e dai l’esempio”.
Così come il marchio Tudor è innovativo, ma legato alla tradizione, gli All Blacks sono una nazionale che si rinnova di continuo, ma custode di un passato glorioso, inscindibilmente legato ai Maori, la cui lingua e identità vengono mantenuti vivi con la Haka, la celebre danza con cui si apre ogni partita. “Fa parte di chi siamo e di chi rappresentiamo. Si tratta di connetterci come una squadra prima della battaglia, per sentire la wairua (il proprio spirito senziente, ndr) e guardare i nostri avversari negli occhi”, conclude Barrett. Che incarna l’essenza del vero campione.
Articolo scritto da: Samuela Urbini
L’articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera – Dorso Orologi di dicembre 2021
Quando alta orologeria e arte si incontrano nascono modelli destinati a fare scalpore. È questo il caso dell’ultimo RM 47 Tourbillon, uno straordinario esempio di abilità nell’incisione e nella smaltatura che rendono l’armatura del samurai che veste il movimento una scultura tridimensionale, la cui bellezza cattura l’attenzione anche di un occhio non esperto. È l’ultima creazione di Richard Mille, marchio conosciuto principalmente per la tecnologia e il carattere audace dei suoi modelli, ma che già da qualche anno rende omaggio alla tradizione orologiera utilizzando le tecniche del passato, unitamente a quelle del presente, per creare opere uniche. Nel 2014 per esempio era nato l’RM 26-02 Tourbillon Evil Eye, con un occhio diabolico sul quadrante circondato da fiamme smaltate, mentre nel 2019 l’RM 57-03 Tourbillon Sapphire Dragon, con un superbo dragone realizzato in un mix di zaffiro e oro.
Questo è invece l’anno dell’RM 47 Tourbillon, un tributo all’antica arte giapponese e alla cultura dei samurai, realizzato in 75 esemplari, la cui ideazione e creazione ha richiesto oltre tre anni di meticoloso lavoro manuale. L’armatura del samurai è incisa in oro giallo, materiale caro alla tradizione nipponica e poi smaltata in alcune sue parti per darle la tridimensionalità necessaria a esaltarne l’espressività. Un lavoro svolto da una coppia di artigiani che hanno il loro atelier proprio alle pendici del Giura, in Svizzera: il maestro incisore Pierre-Alain Lozeron e la smaltatrice Valérie Lozeron. “Per questo progetto, siamo stati contattati nel 2019”, racconta l’incisore. “Si trattava di creare un’armatura da samurai completamente integrata nel movimento con dispositivo tourbillon.
L’idea iniziale è sembrata subito una missione impossibile. I primi campioni li abbiamo realizzati con mastice da modellazione, seguiti da prototipi in ottone. E dopo molti tentativi siamo arrivati al progetto definitivo”. Che comprende molti dettagli appartenenti al mondo dei samurai: l’elmo protettivo, il kabuto, con la sua smorfia per spaventare gli avversari, le due spade con le lame rivolte verso l’alto, le due piume di falco incrociate a ore 6, sopra al tourbillon, che rappresentano lo stemma della famiglia Asano, emblema dello spirito bushido, il codice di condotta dei guerrieri-samurai diventato famoso in tutto il mondo attraverso la letteratura.
“Ho avuto bisogno di 20 scalpelli diversi per sviluppare le strutture e le trame dell’armatura. In totale, sono state necessarie 16 ore di incisione per creare gli undici elementi che danno vita a questa decorazione”, aggiunge Pierre-Alain. “Ma è stato quando è stato colorato con smalto traslucido che lo straordinario lavoro di incisione ha davvero preso vita”, sottolinea la smaltatrice. Che con vari tentativi ha dovuto scegliere quali parti colorare e quali lasciare in oro. “Aggiungendo al tempo di incisione le nove ore per pezzo necessarie per la verniciatura, sono state necessarie più di 24 ore in totale per una singola armatura. Un compito monumentale”. Armatura che riveste fronte e retro il movimento RM 47, un calibro di manifattura a carica manuale con un’autonomia fino a 72 ore, con platina e ponti scheletrati rifiniti a mano realizzati in titanio grado 5 micropallinato rivestito in Pvd grigio.
Articolo scritto da: Samuela Urbini
L’articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera – Dorso Orologi di maggio 2022
C’è un detto che afferma: “Se un uomo dice di non aver paura della morte, o sta mentendo, o è un Gurkha”. Ovvero quei soldati di nazionalità nepalese arruolati nell’Esercito britannico che hanno una grande reputazione di forza e coraggio. Qualità che non mancano certo a Nirmal Purja, l’alpinista nepalese (naturalizzato britannico) di 38 anni protagonista del documentario 14 vette: scalate ai limiti del possibile (visibile su Netflix) e del libro Oltre il possibile (Ed. Solferino), che è diventato gurkha a 18 anni ed è poi stato il primo a entrare nel reparto speciale Special Boat Service, una delle unità militari d’élite del Regno Unito. Prima di dedicare la vita alla sua vera passione: l’alpinismo. Nel quale mostra le stesse doti di audacia e forza interiore che non si affievoliscono di fronte a nulla. Neanche a un’impresa da tutti considerata impossibile: scalare le 14 vette più alte del mondo in meno di sette mesi, quando prima di lui il record era di poco meno di 8 anni. Montagne con una cosa in comune: superano tutte gli 8mila metri, sono dunque nella cosiddetta “zona della morte” dove, a causa della scarsità di ossigeno e delle temperature glaciali, la vita umana non può resistere oltre un ridotto limite di tempo. Per molti, più che un progetto, una spacconata destinata a fallire. E invece Nimsdai (come viene anche chiamato) non solo ci è riuscito, ma ci ha messo sei mesi e sei giorni.
Dietro a un’apparenza da orgoglioso “self made man” si cela un’anima profonda: Nirmal ha compiuto questa impresa per “rappresentare il Nepal e il contributo che i nepalesi hanno dato all’alpinismo mondiale”, scrive sul suo profilo Instagram. Un orgoglio per gli sherpa, uomini “sempre in prima linea per rendere l’impossibile, possibile. Ma anche per ispirare ognuno a sognare in grande, ad avere grandi obiettivi nella vita e impegnarsi per raggiungerli, senza preoccuparsi di quale sia il background”. Le sue origini infatti sono umili e l’infanzia dura. Ma mentre è arruolato, scopre di avere delle doti fisiche speciali, una capacità di acclimatarsi ad elevate altitudini superiore a tanti altri alpinisti, dovuta a una migliore distribuzione di ossigeno alle cellule del corpo, cervello incluso, che lo rende più performante e lucido nelle decisioni proprio in quella zona della morte dove molti iniziano ad avere allucinazioni e problemi fisici.
Le 14 vette che lo hanno reso una star sono state scalate con l’aiuto di ossigeno, ma una delle sue prossime avventure, programmata per la fine di maggio, sarà quella di ascendere l’Everest senza ossigeno supplementare, come nell’alpinismo classico. Per questo progetto, Montblanc – di cui Nirmal è divenuto ambasciatore – ha realizzato il 1858 Geosphere Chronograph 0 Oxygen, crono con funzione di ora universale dal nuovissimo movimento MB 29.27. Ma non è la sola novità, perché dall’interno dell’orologio è stato tolto l’ossigeno per evitare l’appannamento dovuto ai drastici sbalzi di temperatura e prevenire l’ossidazione. Come? Il movimento viene incassato all’interno di una sorta di teca concettualmente simile nella forma a una sabbiatrice da banco, una struttura in cui l’operatore agisce infilando le mani in due aperture con guanti integrati, osservando ciò che fa attraverso una lastra di cristallo superiore. L’ossigeno viene sostituito con l’azoto, un gas non inquinante dal momento che l’aria che respiriamo ne è composta per il 78%. Il movimento dello 0 Oxygen adotta poi lubrificanti speciali adatti a mantenere le proprie caratteristiche anche a temperature estreme di -50° C. Il modello monta inoltre guarnizioni particolari non solo tra la cassa, il fondello e il cristallo, ma nella corona e nei pulsanti cronografici. Per non far uscire l’azoto (o entrare l’ossigeno) una volta estratta o azionati.
Articolo scritto da: Samuela Urbini
L’articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera – Dorso Orologi di maggio 2022
Non lavorate con i designer di orologi. Quando nel 1978 Jean-Louis Dumas fondò a Bienne, in Svizzera, La Montre Hermès, aveva una visione ben chiara. Una frase pronunciata in tono umoristico, che significava che gli altri brand svolgevano egregiamente il loro mestiere da secoli e che se Hermès entrava in questo settore era per fare qualcosa di diverso, portando la propria firma, legata al mondo della fantasia e dell’immaginazione, in grado di far sognare i propri estimatori. Puntando comunque su una solida tecnica, altrettanto importante, con movimenti di manifattura che negli anni si sarebbero raffinati, come di fatto è avvenuto in quasi 45 anni di storia. Le complicazioni in casa Hermès sono dunque pensate al servizio della leggerezza e della poesia, sono il mezzo per comunicare un’idea, e non un obiettivo fine a se stesso. Così è stato per alcuni modelli recenti, come Arceau L’heure de la Lune del 2019, che ha rivoluzionato il modo di concepire le fasi lunari, e così è per l’ultimo in ordine di tempo, l’Arceau Le Temps Voyageur, l’interpretazione del marchio della funzione “ore del mondo”. Che prende vita dal polivalente calibro automatico di manifattura H1837 realizzato in collaborazione con Vaucher sul quale, tramite un sofisticato modulo aggiuntivo, è stata allestita una complicazione perfettamente in linea con la filosofia del brand.
Di orologi world timer sul mercato ne esistono infatti già tanti. Questo però sortisce un effetto sorpresa perché non è il classico anello delle città a girare, bensì il piccolo quadrante di ore e minuti dedicato all’ora locale che, come un satellite, orbita al centro del disco perimetrale, spostandosi di un’ora avanti a ogni pressione del pulsante a ore nove in modo da indicare con la freccetta rossa la città di riferimento del fuso orario. Oltre a chi indossa l’orologio, dunque, anche il tempo stesso è il viaggiatore, da cui il nome del modello, che nel concept iniziale del team creativo diretto da Philippe Delhotal era rivolto sia a chi prende aerei tutte le settimane, sia a chi un viaggio lo compie anche leggendo un libro, o sognando con la fantasia. Per evocare questo mondo surreale, la mappa finemente decorata sul quadrante, ispirata a un’installazione di Jérôme Colliard, ha mari e continenti fittizi con nomi legati al mondo equestre, caro alla maison. Un tocco di follia che rende l’Arceau Le Temps Voyageur ancora più originale. A ore 12 inoltre, una finestrella indica l’ora di casa, parte di quel modulo di 122 componenti, riuniti in soli 4,4 mm di spessore, che un meticoloso lavoro di armonizzazione durato tre anni ha racchiuso in una cassa in platino da 41 mm o in acciaio da 38 mm. Il cui design è ancora quello originario creato da Henri d’Origny nel 1978, con le sue anse asimmetriche.
Articolo scritto da: Samuela Urbini
L’articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera – Dorso Orologi di maggio 2022
In un mondo sempre più inquinato e avvelenato dalla presenza antropica, parole come “ecosostenibilità”, “bio” e “naturale” sono diventate centrali all’interno delle aziende più innovative, sempre alla ricerca di nuovi materiali in grado di ridurre al minimo l’impatto della produzione sul Pianeta. Anche di quelle che sulla plastica hanno costruito le proprie fortune. Esempio calzante, quello di Swatch, non a caso alle prese quest’anno con l’ennesima rivoluzione di questo materiale con il progetto Bioreloaded. Non che il colorato orologio del brand sia mai stato visto come un oggetto inquinante, ma anche le materie plastiche, in quasi 40 anni, hanno fatto passi da gigante. E dal momento che quando si parla di innovazione in casa Hayek non si è mai lesinato, in Swatch hanno lavorato per due anni e mezzo per mettere a punto una plastica innovativa introdotta con la nuova collezione “1983”. Bio-sourced, ossia di origine vegetale perché a base di estratti di semi di ricino.
La collezione si chiama così perché reinterpreta gli Swatch usciti proprio in quell’anno ed è la prima nella quale un produttore di orologi riesce a sostituire tutti i materiali plastici convenzionali con altri di origine biologica in una produzione di larga serie. “La materia prima da cui partiamo arriva dalla Francia”, spiega Carlo Giordanetti, Ceo The Swatch Art Peace Hotel. “Ma Swatch ama verticalizzare, quindi la produzione rimane nostra. La prima volta che ci proposero una plastica alternativa è stato 25 anni fa e veniva dal mais. Ma era troppo morbida e non si riusciva a lavorare. Avere oggi una materia prima bio generata con la trasparenza e la resistenza del suo equivalente tradizionale è davvero straordinario”. Un lungo processo di sperimentazione si è reso necessario per mettere a punto una formula soddisfacente per il reparto creativo, senza compromessi sul lato dei colori e delle trasparenze, cifra stilistica del marchio, e della produzione. “Dato che il nostro processo produttivo si basa su di un sistema di micro iniezione, non si può adattare a qualsiasi tipo di plastica. È la plastica che si deve adattare alla costruzione”, specifica Giordanetti.
Ma la strada è ancora lunga, e tortuosa. Perché in realtà i nuovi materiali sono due, con la stessa origine ma differente composizione: uno per la cassa, che ha una sua rigidità e che soddisfa già i requisiti del brand, può essere colorata e addirittura resa trasparente (lo dimostra il “vetro” dell’orologio, del medesimo materiale). E uno per il cinturino, sul quale la sperimentazione è invece ancora in corso in quanto ancora non consente di raggiungere le trasparenze e le cromie che la creatività del brand richiede. Ulteriore novità, tutti gli Swatch avranno inoltre un packaging realizzato in PaperFoam, derivante da una miscela di amido di patate e tapioca, biodegradabile e riciclabile nella carta o compostabile a casa propria. Una nuova produzione in linea con i diciassette obiettivi per lo sviluppo sostenibile Onu, da raggiungere entro il 2030, che una marca etica come Swatch ha ben presenti. “La vision è quella di arrivare a realizzare con queste plastiche tutti i nostri modelli, conclude Giordanetti. “Quello su cui Swatch però non può e non vuole trovare compromessi è l’influenza sul potenziale creativo”.
Articolo scritto da: Samuela Urbini
L’articolo è stato pubblicato su Il Corriere della Sera – Orologi del dicembre 2020
Un atelier con vista sulla natura di Corcelles-le-Jorat, a poca distanza dalla culla dell’orologeria svizzera di grande precisione. Un tavolo da lavoro gremito da una miriade di barattolini colorati, il cui contenuto, nelle mani sapienti della smaltatrice più rinomata dell’industria del tempo, diventa materiale prezioso che rende unici orologi già raffinati di per sé. È questo il luogo magico in cui Anita Porchet, una donna dalla voce dolce e pacata, attraverso il fuoco trasforma i suoi materiali tradizionali in meravigliosi quadranti artistici, con infinita concentrazione, pazienza e precisione. Una maestria tipica di chi ha imparato questo mestiere da bambina, che l’ha portata a vincere una serie infinita di premi ed a collaborare con le più grandi manifatture di alta orologeria. L’ultima in ordine di tempo, Audemars Piguet per la quale ha realizzato una trilogia di quadranti in smalto paillonnée “Grand Feu” per il Grande Sonnerie Carillon Supersonnerie della collezione Code 11.59 by Audemars Piguet. Un supercomplicato con Grande Soneria, una delle complicazioni più raffinate della storia dell’alta orologeria, che solo un ristretto gruppo di orologiai è in grado di realizzare, assemblare e regolare. Che qui si accompagna alla Supersonnerie, innovativa tecnologia brevettata dalla manifattura all’insegna di una performance acustica ancor più sopraffina, ed alla funzione carillon, riassunti in una complessa meccanica da ben 489 componenti.
Proprio in omaggio ai Grande Sonnerie realizzati nella Vallée de Joux tra il XVII e il XIX secolo, che erano in smalto, la marca ha intrapreso una collaborazione con la smaltatrice svizzera, che ha decorato ogni quadrante con antichi lustrini d’oro, secondo la tecnica paillonné. “Ho iniziato a lavorare con Audemars Piguet un anno fa”, raccontata l’artista. “Di solito i brand vengono da me con delle idee ben precise. Questa volta è stato diverso. Desideravo lavorare con la tecnica paillonné, non l’avevo mai fatto prima. Hanno compreso pienamente il mio mestiere e mi hanno dato completa libertà. È davvero insieme che abbiamo creato questi pezzi unici”. Il paillonné è un’arte unica nel suo genere. Anita Porchet ha tagliato a mano foglie d’oro risalenti a oltre un secolo fa, attraverso tecniche e strumenti antichi, per dare la forma desiderata ai lustrini (paillon), poi meticolosamente incorporati sul disco smaltato del quadrante, prima di passare alla fusione nel forno. “I tre quadranti usano paillons con una struttura geometrica. Linee rette, piccoli anelli. Lavoro con gli stessi strumenti che si usavano il secolo scorso. Ho a cuore il concetto di lavorare così come mi è stato insegnato. Per me la perfezione non fa la bellezza, è piuttosto l’opposto. Anche se ricerco la perfezione, e so che la cercherò per sempre, questa simmetria imperfetta è sinonimo di vita”. Per trovare il colore desiderato che mettesse in evidenza i paillon d’oro, ha combinato cinque colori diversi. “È un processo lungo. Non si tratta solo del tempo impiegato per la creazione, ma anche del tempo di riflessione. Posiziono il materiale, lo rimuovo, lo sostituisco. La creazione del terzo quadrante, per esempio, è stata più lunga e laboriosa, perché ho utilizzato la tecnica del cloisonné, oltre al paillonné. Non a caso ho avuto un problema tecnico nella realizzazione proprio dell’ultimo pezzo della trilogia, ma sono molto contenta del risultato”. Tre orologi unici con una straordinaria unione di innovazione e tradizione, ai quali si aggiungeranno altri due esemplari per i quali i clienti potranno richiedere un quadrante personalizzato, sempre realizzato nello studio di Anita Porchet.
Audemars Piguet
Fondata nel 1875 a Le Brassus, Audemars Piguet è la più antica manifattura di alta orologeria tuttora esistente ad essere ancora guidata dalle famiglie fondatrici, Audemars e Piguet. Meccanismi con suoneria, cronografi e complicazioni astronomiche erano e sono il suo fiore all’occhiello. Legata alle sue origini artigianali, conserva savoir-faire rari ed antichissimi, che si impegna a tramandare attraverso orologi unici, sovente impreziositi da un tocco artistico.
Articolo scritto da: Samuela Urbini
L’articolo è stato pubblicato su Il Corriere della Sera – Orologi del dicembre 2020
Il Saluto al Sole è la sequenza di posizioni yoga in assoluto più famosa. Se si pensa allo Yoga di solito ci si immagina una persona seduta in una posizione a gambe incrociate che intona l’”Om”, tendenzialmente ferma, intenta a respirare ricercando il rilassamento di corpo e mente. Ma se dobbiamo pensare a una serie di movimenti, a cui lo yoga più moderno ci ha abituati, allora il Saluto a Sole è il re delle sequenze.
Significato e origine
In sanscrito si chiama Surya Namaskar: surya è il sole e namaskar è il saluto ossequioso. Il sole è sempre stato venerato nelle culture più antiche di tutto il mondo, compresa quella indiana, quindi verrebbe spontaneo pensare agli antichi praticanti di yoga intenti a compiere le posizioni che oggi conosciamo. In realtà nei testi antichi come i Veda (di datazione ancora dibattuta, ma indicativamente risalenti al 2000/1500 a.C., nei libri più antichi) si parla di un saluto del sole, che però è una formula verbale, eseguita attraverso dei versi, ma non v’è traccia di posizioni, che sono quasi certamente di origine molto più recente. Né se ne parla in altri testi classici dello Yoga, come Yoga Sutra di Patanjali o il più recente Hatha Yoga Pradipika, di Svatmarama.
Nell’interessante libro The Yoga body di Mark Singleton si afferma che il Saluto al Sole fisico sarebbe nato molto più tardi, addirittura nel XX secolo, dal Raja Bhavanarao Pant Pratinidhim (1868-1951), Raja di Aundh, che aveva studiato la cultura fisica non solo indiana, ma anche occidentale, e infine codificato una sua personale sequenza ginnica di allungamento e rafforzamento dei muscoli e delle articolazioni, con finalità di mantenersi in salute, che sarebbe proprio il Saluto al Sole. Fu da questo Raja che, intorno agli anni Trenta, prese probabilmente ispirazione Krishnamacharya, maestro dei più famosi maestri di Yoga del Novecento, da S.K. Pattabhi Jois, padre dell’Ashtanga Yoga, a B.K.S. Iyengar. Con il suo gruppo di specialissimi allievi, nella città di Mysore, diffuse e fece diventare oggi diremmo virale la sequenza del Saluto al Sole, nelle sue infinite varianti.PUBBLICITÀ
Tradizione dell’Hatha Yoga
Esistono molte varianti di Saluto al Sole, ma quella di cui parleremo qui è considerata la variante classica, codificata da Swami Sivananda (1887 – 1963), composta da 12 posizioni, una per ogni ora dell’orologio, molto simile a quella del Raja di Aundh, che ne aveva 10. Le posizioni alternano inarcamenti della schiena e flessioni in avanti, che vanno coordinate ad inspirazione ed espirazione, in una sequenza ben precisa.
Il Saluto al sole fa parte della pratica di Hatha Yoga, il più diffuso yoga che si trova nelle scuole oggi, con piccole varianti rispetto a quello classico, a seconda degli insegnanti. Ma ne esistono di più intense sul piano fisico, come il Surya namaskar A e B dell’Ashtanga Yoga, il saluto al sole del Jivamukti Yoga, oppure le numerose varianti praticate nel Vinyasa. Anche l’Iyengar yoga ha i suoi saluti al sole.
Come si esegue
La sequenza classica del Saluto al Sole si compone di 12 posizioni e può essere ripetuta per molte volte, compatibilmente con il proprio grado di allenamento. La cosa più importante è però coordinare bene il respiro e non eseguire le posizioni in apnea o sbagliando.
Anche se è una sequenza molto conosciuta, non è però così banale come si può pensare. È quindi sempre bene impararla sotto la guida di un insegnante esperto, perché alcuni movimenti potrebbero nuocere alla colonna vertebrale, se non correttamente eseguiti.
Pranamasana: la prima posizione è in piedi, a gambe unite, con le mani a preghiera davanti al petto, in namasté.
Hasta Uttanasana: si sollevano ora le braccia tese in alto sopra la testa, inarcando leggermente la schiena (non troppo, se hai dolori lombari). Questa posizione allunga la parte anteriore del corpo, i pettorali, gli addominali, i flessori dell’anca. E innalza il livello dell’energia nel corpo. Inspira.
Padahastasana: piegati ora in avanti con le gambe tese, con le mani a terra, se ci arrivi, se no piegando leggermente le ginocchia, cercando di portare il mento verso le gambe. Questa flessione in avanti del busto va a massaggiare gli organi addominali e allunga la catena muscolare posteriore. Espira.
Ashwa Sanchalanasana: la posizione equestre. Dalla posizione precedente, porta indietro la gamba destra in un affondo, piega il ginocchio e appoggialo a terra. Contemporaneamente il busto, prima piegato in avanti, si allunga ora in direzione opposta, estendendosi verso l’alto e inarcandosi leggermente, ricercando spazio nella zona toracica per accogliere l’inspirazione. Ora maggiormente si allungano i muscoli della catena muscolare anteriore. È importante in questa fase mantenere il basso addome attivo e risucchiato un po’ in dentro, per proteggere la zona lombare da possibili schiacciamenti dolorosi. Inspira.
Dandasana: questo passaggio si fa trattenendo il respiro. Dalla posizione equestre, porta in dietro la gamba destra e vai nella posizione del bastone, come si traduce letteralmente danda, nota anche come plank nel mondo fitness. In appoggio su mani e piedi, il corpo assume una forma a linea retta. Trattieni il respiro.
Ashtanga namaskara: il saluto ossequioso (namaskara) su otto (ashtau) appoggi (anga). Dal bastone precedente, piega le ginocchia e le braccia contemporaneamente, andando ad appoggiare a terra questi otto appoggi: i due piedi, le due ginocchia, le due mani, il petto e il mento. La pancia è sollevata da terra. Espira.
Bhujangasana: la posizione del cobra. Dalla posizione sugli otto appoggi scivola a terra, prono. Le mani sono all’altezza del petto, gira il dorso dei piedi a terra e, inspirando, solleva le spalle e il petto da terra, con l’aiuto delle mani, ma mantenendo i gomiti piegati, a meno che tu non sia un praticante molto avanzato. Attiva bene i muscoli della schiena e mantieni il basso addome in dentro per salvaguardare la colonna vertebrale lombare. Inspira.
Parvatasana (o Adho Mukha svanasana): il cane a faccia in giù. Dal cobra, torna a pancia a terra, gira i piedi con le punte appoggiate a terra e, spingendo sulle mani, porta in alto il bacino assumendo una posizione a montagna, il cui vertice è il bacino. Espira.
Ashwa Sanchalanasana: a questo punto le posizioni si ripetono a ritroso. Si torna alla posizione equestre, la numero 4 di questo elenco, però portando avanti la gamba destra. Inspira.
Padahastasana: riporta in avanti la gamba sinistra e vai nella posizione numero 2. Espira.
Hasta Uttanasana: torna in piedi con la schiena dritta o leggermente inarcata e con le braccia in alto. Posizione numero 2. Inspira.
Pranamasana: si termina la sequenza tornando con la schiena dritta e le mani a preghiera davanti al petto, come la posizione 1. Espira.
Quante volte ripeterlo
Un ciclo di Saluto al Sole consiste nell’eseguire due volte la sequenza da 1 a 12, alternando la gamba che va dietro e torna avanti nelle posizioni 4 e 9, prima la destra e poi la sinistra. Un ciclo si compone dunque di 24 posizioni. Swami Sivananda consigliava di iniziare con 4 cicli, controllando bene la corretta coordinazione dei movimenti con il respiro. Poi si può progressivamente aumentare fino a 12 cicli.
Essendo brevi hanno il vantaggio di poter essere svolti ogni giorno, così come il corpo richiede, perché si possono facilmente adattare alle proprie routine: quando si hanno 10 minuti se ne eseguono 5/6 cicli e, in base al tempo che si ha a disposizione, si aumentano le ripetizioni.
Esistono oggi alcune pratiche di 108 saluti al sole, che richiedono molta concentrazione e allenamento e sono assolutamente sconsigliate ai principianti.
Quando va fatto
Come suggerisce il suo nome, va praticato idealmente al mattino, rivolti verso est, dove sorge il sole, ed è una pratica energizzante che risveglia un po’ tutto il corpo, tonificando ed elasticizzando muscoli ed articolazioni. Può essere considerata una pratica a sé stante, o anche il riscaldamento per le posizioni yoga successive. Innalzando il livello energetico del corpo, non è indicato la sera, perché potrebbe ostacolare il riposo notturno.
Benefici
La notorietà di questa sequenza è dovuta al fatto che contiene movimenti che alternano inarcamenti e flessioni della colonna vertebrale, un ottimo modo per risvegliare l’energia del corpo al mattino e di mantenersi giovani e in forma, trattandosi di una sequenza dinamica che richiede dunque anche un certo grado di forza muscolare. I Saluti al Sole:
favoriscono la digestione e i movimenti intestinali;
rafforzano le ossa;
aiutano la mente a concentrarsi attraverso l’attenzione che bisogna riporre sul respiro;
respirare in maniera più lunga e profonda favorisce l’ossigenazione del corpo;
riequilibrano il sistema nervoso, dando beneficio a chi soffre di stress;
aumenta l’energia, dando una sensazione di benessere per tutta la giornata.
Le sequenze dinamiche, come i Saluti al Sole, sono l’ideale porta di ingresso nel mondo dello Yoga per quelle persone che fanno fatica a stare ferme a lungo in una posizione.
Articolo scritto da: Samuela Urbini
L’articolo è stato pubblicato sul portale DiLei – Take Care – Italiaonline